Il Giudizio Universale

Scritto da  Roberto Pazzi

«Avrebbero partecipato tutti, chiamati dalle trombe degli angeli della Certosa, e finalmente ogni cosa sarebbe stata chiara, una volta per sempre.»Un racconto inedito del celebre scrittore ferrarese.

Ferrara iniziò ad accogliere nei suoi ipogei i primi membri della famiglia con la morte del nonno.
Il nonno stava molto vicino alle mura della Certosa, quasi in vista della campagna, come se fosse riuscito ad ottenere nel sorteggio della tomba il favore di qualcuno intenzionato ad aiutarlo a fuggire di lì, superando il muretto di cinta per ritornare alla sua casa di Porta Mare, vicino al canale mostrato al nipote tante volte, non lontano dai maceri della canapa dov'era andato a lavorare da giovane e si era buscato la pleurite. Ora dormiva sotto terra al campo 7, numero 11. Quei due numeri indivisibili parevano assegnati per risolvere in via definitiva le indecisioni perpetue del nonno. Non avrebbe più avuto incertezze là dove si trovava, protetto da quei numeri.

 


Se riusciva a fuggire scavalcando il muro, che non era tanto alto, e ritornava a casa, avrebbe trovato però molte cose cambiate. Era meglio avvertirlo che la casa era stata ingrandita di due camere sul retro perché l'ultimo figlio, il più piccolo, si era sposato e ora gli sposi, in attesa d'un bambino, vivevano con la nonna.
Perciò doveva porre attenzione, il numero civico era sì sempre lo stesso, il 13, ma il cancello e la rete verde di ferro erano state spostate per essere in linea col nuovo portone.

«Il nonno stava molto vicino alle mura della Certosa, quasi in vista della campagna, come se fosse riuscito ad ottenere nel sorteggio della tomba il favore di qualcuno intenzionato ad aiutarlo a fuggire di lì...»Se fosse fuggito d'inverno, se aveva le scarpe infangate, si ricordasse di non cercare più lo "zappale", il ferro rettangolare sporgente dal muro accanto al portone, dove aveva sempre appoggiato le suole per nettarle dal fango, prima di varcare la soglia. Il capo mastro dei nuovi lavori l'aveva tolto, rifacendo lo zoccolo della casa. Del resto lo "stradello" era già stato asfaltato da due anni, quindi non ci si sporcava più di tanto.

Ora era diventato "via Francesco Magnoni, idraulico", come dichiarava una piccola lapide di marmo con la sua brava scritta a grandi caratteri, apposta all'inizio della via. I grandi telai per fare i materassi erano stati spostati dalla cucina e stavano arrotolati in un angolo della "cameraccia", la rimessa nell'orto da dove sempre più spesso si udivano in cielo dei gran colpi simili a esplosioni che spaventano i colombi: gli aerei che spezzavano il muro del suono con la loro velocità, quelli che facevano paura al bambino.

Occupato a raccontare al nonno sotto voce, perché il padre non sentisse, tutte le novità che avrebbero potuto disorientarlo se avesse scavalcato quel muro, invece così visibile, che lì, in Certosa, isolava i morti dai vivi, il bambino riempiva intanto il secchio d'acqua per i fiori, alla fontanella d'angolo fra il campo 7 e il campo 8.

Pareva che le parole non proteggessero più i morti, cedendo ai numeri dei loro campi la propria invisibile forza, come se soltanto le voci dei vivi potessero accendere l'ardore delle parole e i morti sapessero con modi più rapidi ed allusivi, i numeri, costruire il loro universo.
«Ma il nonno dov'è, ora ?» domandò al padre la prima volta. Era terribile che si dovesse lasciarlo lì, solo, sotto terra, con la pioggia e la neve del lunghissimo inverno di pianura.

Quando andavano al cimitero dei morti di sua madre, ad Ameglia, sulla collina dov'era nato, vedeva che i parenti che non aveva mai conosciuto stavano ben sollevati da terra, ben sistemati in una specie di letti alti, con tanto sole sempre in vista, a riscaldare le loro ossa. Là i morti pareva non mancassero di niente e non chiedessero altro che di essere qualche volta informati di quel che succedeva in famiglia. Consentivano più facilmente alle lunghe assenze dei familiari, parevano farsi più compagnia da soli, si conoscevano tutti.

Ma nella città di pianura le condizioni dei morti erano tragiche, non si salvavano nemmeno quelli delle tombe alte da terra. Faceva troppo freddo e da vivi si erano troppo divertiti appena veniva una festa, avevano sempre così ben mangiato e ancor più bevuto, in quella terra d'abbondanza, nessuno di loro aveva avuto tempo di pensare alla morte, al rigore del suo clima, al gelo dei suoi ambienti, a quelle tombe senza collina e mare in vista, sprofondate nella pianura quanto più alti erano i pinnacoli e i merli delle loro architetture.

Almeno il nonno se ne stava là, umile, sotto terra, inosservato, vicino alle mura, pronto alla fuga. Ma quei duchi Massari-Zavaglia, che dormivano sotto incombenti statue di angeli che tenevano il dito sulle labbra ad impedire i resoconti dei loro cari, chiusi nelle gelide stanze più interne, dove i progetti e le possibilità di evasioni erano pazzeschi, condannati al ghiaccio che spaccava sulle lapidi corone e titoli, così piantati nella morte, quei poveretti chi poteva mai aiutarli? Chi favorirne la fuga?

«... non lontano dai maceri della canapa dov'era andato a lavorare da giovane e si era buscato la pleurite.»Forse solo quegli angeli, se davvero fossero discesi dal cielo, lasciando agli altri morti, sepolti per terra come il nonno, l'aiuto dei vivi. Per questo si poteva tentare qualcosa per il nonno.

Ma il bambino non avrebbe mai saputo ritornare da solo su quella tomba, né sarebbe stato capace di dirigersi da solo alla Certosa. La città era troppo grande ancora, e quando avrebbe imparato a muoversi per le sue vie senza smarrirsi, ad imboccare la via per recarsi alla tomba del nonno, certamente la paura di non poterlo aiutare a risorgere sarebbe già svanita con la stessa memoria dei numeri così debole in suo padre a ricordare il campo della tomba del nonno, il numero 7.

Non era tuttavia molto importante perché la Certosa era schierata come la gran prova generale di un gioco, quello del Giudizio Universale,  al quale tutto il popolo di Ferrara avrebbe partecipato. I bambini, già contati nel campo della morte loro riservato, appena s'entrava, a sinistra, sotto le statuette bianche dei cherubini. I morti di passaggio da quella città, come Alfred Lowell Putman, il bostoniano sepolto nei prati antistanti; gente straniera, discesa alla stazione della fine come si scende dovunque, con la noncuranza di chi pareva non nutrire dubbi che anche quella piccola città di pianura poteva andar bene per l'ultimo atto.

I mercanti di piazza Travaglio, i soci del circolo dell'Unione, quelli dei Negozianti, i pochi cavalieri di Malta, i confratelli della Buona Morte, i vecchi del ricovero comunale Bertocchi, i fratelli massoni, i capitani di aerei caduti nel cielo dell'onore in azioni di guerra, i sindaci regi e quelli repubblicani insieme ai podestà e ai gerarchi fascisti, i braccianti comunisti insieme agli squadristi che li avevano purgati di olio di ricino, i vicari generali della diocesi, i rettori magnifici della regia università, i senatori regi e non, i suicidi, le belle di notte e i travestiti di via delle Volte, persino i solitari sepolti in sospetto di colera durante una terribile estate dei primi del secolo e collocati fuori del cimitero, nei giardini d'ingresso, dove solo la palla dei ragazzini intenti a giocare qualche volta arrivava. Né sarebbe mancato Roberto Fabbri, il giovine pilota precipitato dal suo aereo nel Po, come Fetonte, sepolto vicino ad Alfred Lowell Putnam, col quale  era facile immaginarlo in conversazione per ingannare la solitudine dei morti, favoriti dalla stessa giovane età.

L'affresco del Giudizio Universale del Bastianino, nel Duomo di Ferrara.Tutti, anche i cittadini più sospetti, anche  i comunisti e i democristiani, avrebbero potuto partecipare al gioco dipinto sul catino dell'abside, in duomo, dal Bastianino e replicato sul protiro della facciata di marmo bianco e rosa da un grande scultore comacino. E certo sarebbero stati ammessi anche gli ebrei, che dormivano nel loro camposanto accanto alla Certosa, più larghi e più soli nelle loro dimore mangiate dal muschio di una solitudine ancora più antica.  Perché il giudizio universale era un gioco di sospetti e verità, simile a quello che il bambino vedeva a scuola, fra i suoi compagni, non diverso da quello di suo padre con i colleghi in banca, nel grande edificio di stile più veneziano che ferrarese di corso Giovecca. Avrebbero partecipato tutti, chiamati dalle trombe degli angeli della Certosa, e finalmente ogni cosa sarebbe stata chiara, una volta per sempre.

La sensazione di non poter consistere da nessuna parte, di una vita divisa fra partenze e ritorni che non si lasciava afferrare mai, sarebbe svanita, il filo delle bugie e delle verità sarebbe stato finalmente nelle mani di chi sapeva ogni cosa, come nel gioco dei difetti, quando c'è uno che sa tutto, poiché ha raccolto all'orecchio le parole di tutti i giocatori, uno alla volta, separatamente dagli altri.

E alla fine del gioco buoni e cattivi, amati e perdonati da quel gran confidente delle pene universali che era Dio, avrebbero vissuto insieme per una serie di secoli così lunga da farli ricostruire identica Ferrara, la città nella pianura del Po più lontana dalle Alpi e dagli Appennini, la città più sola, priva in vista di montagne e di mari che venissero a soccorrerne la certezza di appartenere a un paesaggio, e non di essere sospesa sul Nulla.

Sarebbe risorta insieme ai suoi palazzi superbi e al suo dialetto dalle molli sonorità delle vocali aperte, privo di doppie consonanti, con la sua pigrizia morale e la sua antica pazienza di soffrire, con quella goccia di sangue asiatico nella sua tempra incline a Signorie e tirannidi, rievocata dall'oblio che avrebbe permesso la rinascita dello stesso Bene e dello stesso Male, in un mondo dove ogni forma finge un ingannevole mutamento.