1598: diario di una svolta

Scritto da  Luciano Chiappini

Don Cesare d'Este, duca di Modena e ultimo degli estensi a governare Ferrara, anche se solo per pochi giorni, in un ritratto ottocentesco; lasciò Ferrara il 28 gennaio 1598.Ferrara passa dagli Estensi alla Santa Sede.

La morte del duca Alfonso II d'Este, avvenuta a Ferrara il 27 ottobre 1597, segna la fine del dominio estense a Ferrara, protrattosi fra varie vicende per oltre tre secoli. Che egli non potesse contare su di un legittimo successore era cosa ormai indubitata. Non avendo i tre matrimoni regalatogli un figlio, la disposizione voluta da Pio V con tanto di bolla, per cui l'eventuale rinnovo dell'investitura era rigorosamente legato alla continuità della discendenza, troncava in partenza ogni ulteriore speranza.


E' pur vero che il defunto duca nulla aveva lasciato di intentato. Mentre il marchese Filippo d'Este dei conti di San Martino cercava di sostenere la causa estense a Roma, anche se con scarso esito e forse con altrettanta scarsa convinzione, egli stesso si recò a Roma, dove fece un ingresso solenne e più volte visitò papa Gregorio XIV, il quale, tutto sommato a lui favorevole, dopo aver sentito il parere di una congregazione di tredici cardinali, di propria iniziativa dichiarò non compreso il caso di Alfonso II nella bolla di Pio V e, di conseguenza, la legittimità di una nuova investitura.

Ma, richiedendo il duca, a più sicura garanzia, una sottoscrizione del Motu proprio papale da parte dei cardinali e non nascondendo Gregorio il desiderio dell'immediata designazione del successore in Filippo d'Este, suo parente, contro le propensioni di Alfonso per il cugino Cesare, il negoziato subì una sospensione, poi risultata fatale.
Di lì a poco moriva Gregorio XIV e il successore, il cardinale Facchinetti, Innocenzo IX, confermò a tamburo battente la bolla di Pio V, revocando la dichiarazione del papa defunto, e così fece Clemente VIII Aldobrandini, successo in breve a Innocenzo IX, per cui del tutto velleitarie risultarono le ultime mosse di Alfonso: le iniziative per ingraziarsi papa e imperatore e la designazione puramente platonica di Cesare a successore ed erede nel testamento redatto il 17 luglio 1595.

Una volta mancato Alfonso, del tutto formali risultarono, naturalmente, il decreto del Giudice dei Savi sul riconoscimento di Cesare a duca, gli applausi del popolo, l'ossequio dei nobili, la benedizione del vescovo Giovanni Fontana e il giuramento di fedeltà da parte della Magistratura cittadina.
In sede ecclesiastica non si perse tempo. Il papa, il 4 novembre, dichiarò formalmente devoluto alla Chiesa il ducato di Ferrara, intimando a Cesare di lasciare immediatamente lo Stato, pena la scomunica come usurpatore e l'espulsione mediante la forza.
Vi provvide con un monitorio, o avviso pubblico, affisso nei luoghi pubblici di Roma e spedito poi in varie città, informando della cosa le corti cattoliche a mezzo di tre nunzi apostolici e, nel contempo, reclutando milizie dentro e fuori lo Stato pontificio.

Cesare, ovviamente, fece di tutto per resistere, contando dapprima su di un possibile lavorio diplomatico a Roma e dovunque fosse conveniente, ma, perduta ben presto ogni speranza sugli esiti positivi della negoziazione, puntò sulla resistenza armata. Le casse dello stato erano esauste, e in quel momento si richiedevano somme elevatissime per provvedere a una serie di misure urgenti, quali la fortificazione del borgo di San Luca, l'irrobustimento dei presidi militari nelle zone più delicate, la difesa della Romagna, dove spedì ottomila soldati. Non ci volle altro, a Roma, per affrettare l'organizzazione dell'esercito papale, forte, nel giro di un mese, di circa trentacinquemila uomini, e comandato dal nipote del papa, il giovanissimo cardinale Pietro Aldobrandini, che si era subito portato ad Ancona.


Don Cesare d'Este, duca di Modena e ultimo degli estensi a governare Ferrara, anche se solo per pochi giorni, in un ritratto ottocentesco; lasciò Ferrara il 28 gennaio 1598.Intanto, proprio il giorno di Natale, a Cesare, mentre assisteva alla messa nella cattedrale, fu annunciata la scomunica, emanata due giorni prima con tutta la pubblicità del caso. Cesare tentò ancora ogni mezzo per prepararsi alla difesa, ma il 27 dicembre, sollecitato, come pare, dal suo teologo, il gesuita Benedetto Palma, a evitare una guerra perduta in partenza, a non contare sulla fedeltà dei sudditi, a tenere conto delle censure ecclesiastiche, decise di venire a patti, affidando alla sorella di Alfonso II, la duchessa Lucrezia, il compito di raggiungere Faenza, dove si era radunato l'esercito pontificio, per stipulare un accordo con il cardinale Aldobrandini.

 

 

Il 31 dicembre Lucrezia parte da Ferrara su una lettiga, uscendo per la porta di San Giorgio. Le sue condizioni di salute sono molto precarie, le strade sono impervie per la neve caduta abbondantemente la notte precedente, e il freddo è sempre più intenso.

Nei pressi di Lugo, dove Lucrezia giunge con il suo seguito il giorno di Capodanno del 1598, sono schierati in ordine di battaglia i soldati dell'armata papale e quelli dell'esercito ferrarese. Ma la duchessa e il cardinale ordinano alle proprie parti la sospensione di ogni movimento e si incontrano a colloquio, raggiungendo poi insieme la città di Faenza. Va subito detto che Lucrezia, duchessa di Urbino, sposata allo spregiudicalo e cinico Francesco della Rovere e poi da lui separatasi (fatto più unico che raro a quei tempi), covava un profondo rancore nei confronti di Alfonso d'Este, padre di Cesare (del ramo spurio discendente da Alfonso I e Laura Dianti). E poiché riversava la piena di tali sentimenti anche contro il figlio di costui, non era certo la mediatrice più affidabile per quel negozio.

L'accordo fu ben presto raggiunto. Corse voce, allora, che l'estense avrebbe potuto salvare alla sua famiglia almeno il possesso della Romagna, in quanto costituita di beni allodiali, cioè privati, appartenenti alla sua casata, e le stesse artiglierie, in buona parte forgiate di propria mano dal duca Alfonso I e, in ogni caso, dietro suo personale esborso.
Ma, avendole il giovane cardinale fatto balenare la possibilità dì essere dichiarata a vita duchessa di Bertinoro con poteri assoluti, Lucrezia fu indotta a cedere. Cesare, venuto a conoscenza dell'andamento delle trattative, per ogni evenienza ritiene opportuno saggiare la fedeltà dei ferraresi e una notte fa suonare le campane a distesa. Ma pochi fra i suoi sudditi rispondono alla chiamata. Dunque, la situazione volge al peggio.

Il 6 gennaio a Cento è diffusa la notizia della scomunica di Cesare, con relativa formula ufficiale. I centesi, infiammati dalle parole dell'arciprete e di un cappuccino, si levano a tumulto e scacciano il governatore estense con il suo presidio. Considereranno quell'evento di tale importanza da solennizzarlo, nei dieci anni seguenti, con le più varie iniziative. Vana è la reazione di Cesare: i soldati da lui inviati a domare la rivolta sono bloccati dalla neve caduta copiosissima, dalle grosse lastre di ghiaccio e dai tronchi d'albero disseminati a bella posta lungo le strade.

Convinto che non sia più possibile resistere, non gli resta che accettare le disposizioni dei capitoli preliminari all'accordo: inviare a Faenza il proprio figlioletto Alfonso, di sette anni, in veste di ostaggio; rimettere le insegne del ducato di Ferrara nelle mani della Magistratura ferrarese; e conferire a Lucrezia un ampio mandato per concludere la convenzione. Malinconicamente licenzia gli operai reclutati in fretta per fortificare i borghi di San Luca e di San Giacomo e i soldati chiamati a raccolta per un'eventuale difesa della città. Ma questi ultimi, tornando alle proprie case, commettono soprusi e violenze nelle campagne del territorio.

Il 12 gennaio, a Faenza, dopo che il testo è stato più volte portato a Ferrara e riportato nella città romagnola per le dovute modificazioni e gli inevitabili ritocchi, viene solennemente stipulato l'accordo fra le due parti, la cosiddetta Convenzione Faentina. In sintesi, mentre cede il governo del ducato di Ferrara alla Santa Sede, Cesare viene assolto in forma amplissima dalla scomunica, e con lui i ferraresi incorsi nella stessa condanna; ha facoltà di portare fuori Ferrara tutti i propri averi e di conservare il giuspatronato della Prepositura di Pomposa e della Pieve di Bondeno; ha diritto di ricevere ogni anno, dietro equo pagamento, quindicimila sacchi di sale dai magazzini di Cervia; lascerà Ferrara entro il 29 gennaio, prima che vi entri il cardinale Pietro Aldobrandini in nome della Sede Apostolica.



Il cardinale Pietro Aldobrandini, plenipotenziario del Papa nella trattativa per la devoluzione, fu il primo a entrare a Ferrara.Per parte sua, il cardinale, o chi altro per mandato di Roma, farà il suo ingresso a Ferrara pacificamente, provvederà alla sicurezza e alla tranquillità di tutti i ferraresi, di qualsiasi autorità e condizione essi siano, e nello stesso tempo consentirà a quanti vorranno seguire il duca Cesare di conservare e godere i propri beni nonché di tornare, quando lo desiderino, a Ferrara per "praticare, conversare e trafficare liberamente".
Il giorno successivo alla firma della Convenzione Faentina, l'imperatore Rodolfo rinnova a Cesare d'Este l'investitura di Modena, Reggio e delle altre terre di pertinenza imperiale, consentendo così a lui e alla sua famiglia di continuare in quei luoghi il governo signorile. Intanto, a Ferrara si procede alla divisione delle artiglierie fra le due parti, estense e pontificia, secondo un esplicito riferimento della Convenzione.

 

Si tratta di settanta pezzi assegnati in parti eguali per peso e a sorte. Dei quattro cannoni, famosissimi, forgiati dal duca Alfonso I, toccarono al papa il Gran Diavolo e il Terremoto. Cesare ricevette la Regina e lo Spazzacampagna. Solo il Gran Diavolo venne poi distrutto, mentre gli altri furono conservati a Ferrara e a Modena almeno fino al secolo scorso.
Il 28 gennaio è il giorno della definitiva partenza. Cesare, dopo aver spedito a Modena archivio, biblioteca, raccolte d'arte, mobili e artiglieria, si appresta a lasciare Ferrara. La mattina, nella cattedrale, assiste alla messa e riceve la benedizione dell'arcivescovo Matteucci. Poi va al castello, da dove, salito in carrozza, si avvia alla Porta degli Angeli, preceduto in altre vetture dalla moglie Virginia de' Medici, dai figli Giulia, Luigi, Laura e Angela (il primogenito Alfonso raggiunge Modena da Bologna, dove è rimasto ostaggio sino alla conclusione dell'accordo). Lo scortano seicento cavalleggeri, duecento archibugieri a cavallo, trecento fanti.

Con le lacrime agli occhi legge una lettera senza levare lo sguardo dal foglio. Ma nei pressi della chiesa degli Angeli si ricorda dei carcerati e, volendo liberarli, invia un cameriere e un gruppo di archibugieri alle prigioni del Castello e del Palazzo della Ragione, dove i custodi, preoccupati dei crediti non ancora riscossi dei loro ospiti, si rifiutano di aprire. Le porte, però, vengono abbattute dagli armigeri, e così i detenuti, tranne uno, cui si attribuiscono enormi misfatti, escono a rivedere il sole.

Assolto questo impegno, Cesare esce dalla città e si avvia verso la nuova residenza modenese. Lo seguono, condividendone la sorte, non solo i familiari (il fratello Alessandro, poi creato cardinale; il cugino Alfonso; la cugina Bradamante; Laura d'Este Malaspina) ma anche non pochi rappresentanti della nobiltà ferrarese, circa un migliaio (non ventimila, come qualcuno ha detto, cifra assurda, se si considera che la popolazione cittadina ammontava circa a trentaquattromila unità ).

Vale la pena di ricordare i nomi più significativi: la marchesa Tassoni; il marchese Ernesto Bevilacqua; il marchese Ercole Rondinelli; Roberto Obizzi; il conte Taddeo Rangoni; il conte Gianbattista Laderchi, detto l'Imola (segretario di Stato di Cesare, che conservò la medesima carica a Modena, dove morì nel 1618); il conte Alfonso Molza; il conte Ercole Coccapani; il conte Alfonso Fontanella; il conte Guidobaldo Roverella; il conte Galeazzo Tassoni il Giovane; il conte Ippolito Tassoni; il conte Enea Montecuccoli; il conte Tiberio Ricci; il conte Fabio Scotti; il conte Ugo Rangoni; il conte Giovanni Molza; il conte Paolo Brusantini; Carlo Forni; il Ghirlinzoni; Geminiano Roncà; il colonnello Molla. Rimane a Ferrara, per decisione autonoma e in linea con il carattere fiero e indipendente, Marfisa d'Este.

Il giorno successivo, 29 gennaio, il cardinale Pietro Aldobrandini parte da Bologna alla volta di Ferrara per prendere possesso della città, scortato da dodicimila cavalli e da ottomila fanti. Entra in città dalla porta di Castel Tedaldo dopo aver ricevuto le chiavi delle porte cittadine e delle prigioni dal Magistrato, a sua volta affiancato dai Collegi dei Dottori  e dalle Corporazioni delle Arti. Procede seduto su una magnifica chinea, o cavallo bianco, sotto un baldacchino retto da ventiquattro giovani riccamente vestiti, e, dopo aver ricevuto l'omaggio del vescovo e del clero, fra rombi di artiglierie e suoni di trombe, percorre le vie cittadine ornate di archi trionfali e di sontuosi tappeti per entrare prima nella cattedrale e poi nel castello.

Il popolo fu allietato dal lancio di duecento scudi in monete spicciole dalla loggia sovrastante la porta maggiore del duomo, da una diminuzione del prezzo del pane e dal permesso di andare in maschera, poiché si era di carnevale. Le strade rimasero illuminate per tre giorni.
Ma i soldati dell'esercito papale, evidentemente reclutati nei bassifondi romani, benché ospitati dai ferraresi, si diedero a tali gozzoviglie ed eccessi da costringere il cardinale legato a farli dirottare in buona parte verso la Romagna, dove peraltro non si comportarono meglio, tanto che non pochi di loro vennero uccisi dalla popolazione esasperata. Il nuovo governo cercò subito di provvedere adeguatamente all'ordine pubblico e concesse corpose agevolazioni ai ferraresi, pesantemente gravati, negli ultimi tempi, dal fiscalismo estense.

Ecco la "Costitutione Aldobrandina", ed ecco le grida, i bandi e le gratie, emanate proprio nel 1598. I provvedimenti adottati possono essere così sintetizzati: riduzione della gabella sul frumento e le biade, nonché del dazio sul vino, il sale e il pesce d'acqua dolce e di mare; abolizione del cosiddetto boccatico, che gravava su cittadini e contadini, della cosiddetta "dadia" sui lavori a carico di chi li effettuava e di chi li ordinava, e del dazio sul pesce pescato nel Po; blocco del prezzo del pane; divieto del transito di armi in città; divieto di danneggiare i beni privati di Cesare d'Este; controllo dei soldati del presidio di Ferrara, allo scopo di evitare offese ai cittadini e disordini di ogni genere; salvaguardia dei diritti dei carcerati sui propri averi durante il periodo della detenzione, con designazione della Compagnia della Morte quale garante; amnistia ai sudditi e ai vassalli per delitti commessi prima del 29 gennaio. E non è da dimenticare l'istituzione di un Tribunale di Rota, formato da cinque uditori, dottori e non ferraresi, in carica per cinque anni, deputati a discutere e decidere cause e controversie della legazione ferrarese.

 

Clemente VIII fu così determinato al recupero per lo Stato Pontificio del governo diretto su Ferrara da recarvisi personalmente a prenderne possesso.Il cardinale Aldobrandini, peraltro, si mostrò risoluto a voler eleggere, senza altre mediazioni, il podestà di Ferrara; la cosa risultò alquanto sgradita, non solo perché si sottraeva così quel diritto al Magistrato cittadino, ma anche perché egli designò a quell'ufficio un tal Fabro Fabri da Bertinoro, uomo di tale rigore e crudeltà da meritare le coraggiose proteste di Marfisa d'Este, l'unica estense rimasta a Ferrara da quando, esattamente il 12 febbraio, era mancata Lucrezia d'Este, duchessa di Urbino, plenipotenziaria di parte estense alla Convenzione di Faenza, stroncata da una lunga malattia e sepolta con tutti gli onori nel coro della chiesa del Corpus Domini.

 

Lucrezia aveva designato suo erede universale il cardinale Pietro Aldobrandini, escludendo, non solo, ed era ovvio, il brutale consorte, duca di Urbino, dal quale si era separata, ma lo stesso cugino Cesare, ora duca di Modena, con cui era in pessimi rapporti e che nel testamento neppure nominò. I funerali, sontuosissimi, vennero celebrati in Duomo, per volere dell'Aldobrandini, ma sul drappo di velluto che copriva il feretro fu posato da mano ignota un bigliettino su cui si leggeva:

Inimica alla patria e al proprio sangue, / Sotto finta virtù di falsa aita, /Precipitando altrui perse la vita /L'iniqua donna che qui giace esangue.

Su di lei, alla quale un anonimo autore di memorie sulla vita privata di Alfonso II dedicò l'epitaffio

Lucrezia giace qui, ma non romana

l'ambasciatore fiorentino Malaspina così si esprimeva: «Ha mostrato in questa sua fine l'odio particolare et il fine che desiderava di questi signori; però [si legga 'perciò'] pare che Iddio voglia che in questa città non resti reliquie di questa casa.»

Ma neppure a Modena Cesare poteva dormire sonni tranquilli, perché non tardarono le pretese del cardinale Aldobrandini, il quale, come erede di Lucrezia, reclamava la cessione della legittima della defunta sui beni del padre Ercole II (ottantamila scudi d'oro) e sull'aumento di dote promesso da Alfonso II suo fratello (ventimila scudi).
Poiché molti beni familiari di proprietà estense si trovavano nel ferrarese e, in caso di contenzioso, era ipotizzabile il rischio di un blocco da parte dell'Aldobrandini, Cesare ritenne opportuno venire a patti, cedendo al cardinale diecimila scudi e altri sessantamila in possedimenti da lui lasciati nel territorio e ammontanti a quel valore.

Ma non basta: una causa fu intentata a Cesare da Anna d'Este, sorella di Alfonso II e sposa, prima di Francesco duca di Guisa, quindi di Giacomo di Savoia, duca di Nemours, come presunta erede dei beni e dei crediti estensi in terra di Francia. Anche in questa occasione il duca di Modena dovette soccombere.

Su di lui, che pare il bersaglio di tutte le insidie e di tutti gli attacchi, vale la pena di aggiungere alcuni particolari, a completarne la fisionomia. Egli sapeva benissimo che Lucrezia gli era profondamente ostile e che invece di essere dalla sua parte gli avrebbe contrastato il cammino; ebbene, se prestiamo fede al cronista Ubaldini, egli avrebbe dato ordine che fosse strangolata, «ma non seguì l'effetto alli 2 dicembre 1597 per la sua irresoluzione ed inconstanza».

 

La cronaca dell'ingresso di Clemente VII e del suo seguito a Ferrara in un'incisione dell'epoca.Ma c'è di più: Marco Pio, signore di Sassuolo, vassallo di Cesare, pare si accordasse con il cardinale Aldobrandini per consegnargli quella fortezza; scoperta la trama, la cosa non andò in porto, il che, peraltro, non evitò al malcapitato, tutto sommato un figuro burbanzoso e prepotente, di venire ucciso a colpì di archibugio a Modena, una notte del 1599, mentre usciva dalla residenza del duca Cesare, il quale fu considerato dalla gente il mandante dell'assassinio, anche perché, successivamente, il feudo fu tolto ai Pio e uno di loro, lo zio di Marco, venne arrestato.

L'opinione pubblica contemporanea commentò impietosamente la sorte di Cesare, e di ciò si trova eco nella musa satirica. Una delle composizioni allora diffuse suona così:

Ferrara ferro e Cesare vittoria / indica e presuppone: / ma il moderno campione / di Ferrara ha cangiato /  i nomi, i fatti e 'l stato/ con aver altri la città e la gloria; / e sepolto egli ha insieme / l'onor, la patria e 'l vero estense seme. / Cesare, io mi credea / (tal era il suon della primiera voce) / udir leon feroce; / ma in un momento poi / vil pecorella ti discopri a noi, / poiché tanto vilmente / l'hai dato in preda ad un pastor clemente. / Ora scrivan di te tutte le carte: / vattene a posar l'arme in altra parte.

Un bisticcio è davvero lapidario:

Cesare fu di nome e d'opre augusto / Cesar tu sei di nome e d'opre angusto.

A Venezia si approfittava dell'occasione per scaricare sui ferraresi, secolari nemici e odiati vicini, l'arrendevolezza e la viltà di cui si accusava l'estense, facendosi beffe di loro, buoni solo a scappare di fronte agli avversari senza neppure guardarli in faccia.
Un verseggiatore di quelle parti si esprimeva appunto così:

...da quel che ha fato / Cesaro d'Este, cusì gran campion, / Se fa sta conclusion: / Che se in Ferara i Cesari fan questo / Che se sa ben quel che può fare il resto.

A Ferrara il nuovo legato si dava da fare per organizzare la vita dello Stato mediante opportune iniziative. Dopo aver emanato una costituzione per la riforma del foro civile, promulgò i "bandi generali" in materia di criminalità, facendo tesoro di quanto appreso a Venezia nel corso di una sua visita alla città lagunare effettuata per rendersi conto delle modalità di funzionamento di quel governo. Si recò pure alla Mesola e a Comacchio, dove cercò di tranquillizzare quei valligiani, decisi a chiedere la restituzione di alcune valli che rendevano ventiduemila lire marchesine, secondo loro precedentemente usurpate dalla Camera ducale, cioè dalle finanze estensi.

Ma ormai erano maturi i tempi per la presa di possesso diretta da parte del papa, inteso a intraprendere un viaggio ufficiale e trionfale alla volta di Ferrara. Clemente VIII parte da Roma il 12 aprile; lo precede di un giorno, contenuto in un'urna di cristallo, il Santissimo Sacramento sotto un piccolo baldacchino, portato da una bianca cavalcatura con un campanello d'argento al collo. Lungo il percorso il papa riceve l'omaggio dei nobili e il saluto festante del popolo. A Rimini lo riveriscono il duca Cesare d'Este e il fratello Alessandro, futuro cardinale, in un clima di totale riconciliazione, tant'è vero che Clemente invita alla sua tavola i due personaggi. 

Il 7 maggio, giorno dedicato a San Maurelio, comprotettore di Ferrara, il papa, la sera, giunge al monastero degli Olivetani di San Giorgio, dove trascorre la notte. Il giorno successivo, 8 maggio, dopo avere celebrato la messa, riceve le chiavi della città dal Giudice dei Savi e, indossati gli abiti pontificali e postosi sul capo il triregno, si appresta all'ingresso trionfale attraverso la porta.
Scorrere l'elenco dei componenti del corteo significa non solo penetrare più da vicino il costume di quei tempi, ma anche, più specificamente, la grandiosità teatrale di un avvenimento simboleggiante l'intreccio del potere politico e di quello religioso.

 

La cronaca dell'ingresso di Clemente VII e del suo seguito a Ferrara in un'incisione dell'epoca.Precedono ottantacinque muli con rosse gualdrappe e seguono due corrieri, quattro compagnie di fanti con lance e archibugieri, i mazzieri dei cardinali a cavallo con le valigie dei padroni, le valigie del pontefice, dodici palafrenieri con altrettante chinee e cavalle bianche condotte a mano, sei trombettieri, i caudatari dei cardinali, gli scudieri del papa, la servitù addetta ai cardinali, i camerieri detti extra muros, tre avvocati concistoriali, i cappellani segreti del papa, i nobili forestieri e quelli ferraresi, tre uditori di Rota, i camerieri di onore e quelli segreti del papa, l'ambasciatore di Bologna, gli ambasciatori di Francia, Venezia e Savoia affiancati, altri sei trombettieri, il vescovo di Ferrara con il suo clero, i mazzieri pontifici a cavallo, due detti De virga rubea, il crocifero del papa con la croce, due chierici della Cappella con lanternoni accesi, indi il Santissimo Sacramento, i monaci di San Giorgio, ventisette cardinali a cavallo di mule, monsignor tesoriere che getta denaro a ogni cantone di strada, un palafreniere con le chiavi della città, trenta paggi ferraresi riccamente vestiti, il pontefice in sedia gestatoria sulle spalle di otto palafrenieri sotto un baldacchino sorretto dai Dottori Legisti e Medici dello Studio ferrarese fra due ali di guardie svizzere, e infine, un grande numero di prelati con quaranta fra patriarchi, arcivescovi e vescovi, tutti a cavallo.

Il percorso è per la via Ghiara (oggi Venti Settembre), San Pietro, Saraceno, San Francesco (oggi Terranuova) - ovviamente non si passa per il ghetto (oggi via Mazzini) - Giovecca e piazza del Duomo. Una visita alla cattedrale e poi l'entrata al castello, dove è stabilita la dimora del papa. I vari componenti della comitiva vengono alloggiati nelle abitazioni dei cittadini più ragguardevoli, o comunque sistemati come meglio si può. Per tre notti la città resta illuminata a festeggiare l'evento.

Uno spiacevole incidente turba la letizia di quei momenti. Un fuoco artificiale viene malaccortamente acceso sulla torre del castello chiamata la Marchesana da un bombardiere anconitano dell'esercito papalino. Il fuoco divampa sulla parte più alta della costruzione. Il panico dilaga per la città, mettendo in movimento la macchina difensiva. I ferraresi sono chiamati a raccolta dalla campana pubblica, i nobili giungono a cavallo con le armi spianate, gli artigiani accorrono in frotte, mentre i soldati del papa si apprestano a intervenire.
Il più agitato è il pontefice, che, scambiando quel trambusto per una sollevazione, fugge a piedi fuori dal castello e bussa alla porta del vescovado, che, però, rimane chiusa. Poco dopo il cardinale legato lo ragguaglia sull'accaduto e gli restituisce la calma. Ma l'episodio riserva un tragico epilogo. Un romano precipita su un gruppo di operai saliti verso la cima della torre per domare il fuoco, provocando morti e feriti.

Il 13 giugno Clemente VIII emana la Costituzione Centumvirale, con la quale viene creato un Consiglio di cento cittadini deputati a rappresentare la popolazione ferrarese. Il Consiglio, della durata di tre anni, è diviso in tre ordini: il primo, quello dei nobili, eletto dal pontefice, di ventisette persone (successivamente portate a trentadue e, infine, a sessanta); il secondo, nominato dal Consiglio stesso, di cinquantacinque membri, tra nobili e stimati cittadini; il terzo, di nomina delle corporazioni, di diciotto membri, formato da mercanti e artigiani (setaioli, drappieri, merciai, banchieri, fabbri, orefici e aromatari). Il potere dei Consiglio è piuttosto modesto, in quanto non è consentito decidere alcunché senza l'approvazione del legato.
Mentre si dà esecuzione alle nuove disposizioni, viene eletto Giudice dei Savi Antonio Montecatini e si procede alla riconferma dei privilegi nobiliari nonché alla rinnovazione dell'investitura di molini, passi, osterie, beccherie, forni, pesche e altri diritti in privativa già concessi dagli estensi.

Già la Costituzione Aldobrandina aveva regalato alla città di Ferrara un privilegio per così dire fuori regola, quello di tenere in Roma un proprio ambasciatore, come avveniva per gli stati sovrani, e di aprire una zecca.
Clemente VIII si mostra attento ad affrontare le questioni più importanti e urgenti sul tappeto. Convoca gli esperti in materia di acque e fiumi   per discutere i problemi del Po e del Reno, gravissimi anche a quei tempi e causa, fra l'altro, di frequenti discordie con Bologna e Ravenna. Dopo avere ascoltato le varie relazioni e considerato i progetti presentati, si riserva ogni decisione una volta tornato a Roma.

Sono tempi, questi, in cui da ogni parte accorrono a Ferrara ambasciatori e inviati dei regnanti, dei principi e delle città. È un susseguirsi di arrivi, di cortei, di ricevimenti. Abbondano lo sfarzo, lo sfoggio delle divise, la sontuosità dei costumi. Vengono a ossequiare il papa di persona Ferdinando, arciduca d'Austria; Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova, accompagnato dalla moglie Eleonora e dalla sorella Margherita, vedova del duca Alfonso II d'Este; il duca Ranuccio Farnese di Parma; Ferrante Gonzaga, principe di Guastalla; Federico Pio, principe della Mirandola; la vedova di Stefano Bathory, re di Polonia; il Gran Conestabile di Castiglia, governatore di Milano, incaricato di rappresentare la Spagna.

Per parte sua, il pontefice è intenzionato a visitare il territorio ferrarese e, in modo particolare, le zone della Bassa. Dopo una villeggiatura, dal 17 al 24 agosto, alla delizia estense di Belriguardo, che lo stupì per la grandiosità imprevista, il 27 settembre partì alla volta della Mesola; in seguito sostò a Comacchio, dove cercò di alleviare la povertà dei valligiani donando alla comunità tre valli camerali. Il ritorno, per la via di Ostellato e Portomaggiore, avvenne il primo ottobre. Naturalmente non si contano le sacre funzioni celebrate in quei mesi.

La più solenne fu, forse, quella indetta quando al pontefice venne comunicata la pace tra Spagna e Francia, per la quale si era insistentemente adoperato: il 19 maggio un corteo di cardinali, vescovi e clero accompagnava Clemente VIII dal convento di San Francesco alla cattedrale, dove fu celebrata una messa solenne. Il 29 giugno l'ambasciatore di Spagna a Roma, il duca di Sessa, dal Palazzo dei Diamanti si reca alla cattedrale per offrire al papa la chinea, o mula bianca, a lui dovuta per la signoria del Regno di Napoli, allora governato dagli spagnoli. Ad accoglierlo trova, però, il cardinale di Verona, essendo il pontefice costretto a letto per un attacco di podagra: fra gli apparati sfoggiati in quell'occasione si ricordano le spalliere ornate di ricami in oro e in argento, con la rappresentazione delle vite dei santi Pietro e Paolo, portate a Ferrara da Roma.

Un'altra grandiosa funzione fu quella del 14 ottobre, quando si celebrarono i funerali per il defunto Filippo II, re di Spagna, alla presenza del papa, della corte e degli ambasciatori. In questa occasione accadde un episodio spiacevole, significativo dei costumi del tempo: un litigio a suon di frustate e bastonate fra i due cocchieri del vicelegato e del cardinale Curzio Passeri Aldobrandini. il quale, ultimo nella pubblica piazza, si rifiutava di cedere il passo al primo, fra i commenti e le risa del popolo e della corte presenti al fatto.
Va detto che questo cardinale era nipote del papa, in quanto figlio di una sorella, ma era rimasto deluso dallo zio quando gli era stato preferito l'altro nipote, figlio di un fratello, il più giovane Pietro, anch'egli cardinale, meno colto, meno equilibrato, meno discreto, ma certo più abile e più maneggione. In seguito a questo episodio, Curzio non volle sentire ragioni e, dopo aver fatto consegnare al papa un biglietto di forti doglianze e di congedo, nottetempo lasciò Ferrara per Venezia e poi per Milano: a nulla, almeno per il momento, valsero le suppliche di coloro che subito gli furono mandati dietro, le lettere, le promesse di risarcimenti e di soddisfazione.

Ma l'avvenimento più grandioso fu senz'altro quello del duplice matrimonio celebrato a Ferrara il 15 novembre, quando nella cattedrale Filippo III re di Spagna, non in persona, ma rappresentato dall'arciduca Alberto, sposò Margherita d'Austria, e Alberto d'Austria, che prima era stato cardinale, impalmò Isabella, figlia di Filippo II di Spagna, la quale portava come dote la terra di Fiandra (anche Isabella non era presente, ma la rappresentava il duca di Sessa). L'arciduca, accompagnato dalla nipote Margherita e dalla di lei madre, partì da Vienna con un seguito di quattromila persone e, passando per Verona (dove lo raggiunse il cardinale Pietro Aldobrandini) e per Mantova, arrivò a Pontelagoscuro, per trascorrere la notte nel palazzo estense detto dell'Isola.
Il giorno seguente, 13 novembre, il corteo regale, con il concorso di diciannove cardinali, ambasciatori, prelati, nobili e guardie tedesche e svizzere, raggiunse la piazza del Duomo, di dove gli augusti ospiti passarono al Palazzo ducale, salendo una scala di legno appositamente allestita per consentire l'accesso dalla porta maggiore del tempio alla sala situata sopra l'ingresso al grande cortile. Il papa li ricevette con tutti gli onori del protocollo, vestito degli abiti pontificali.

Dopo la celebrazione dei due matrimoni, il giorno 15 novembre, il popolo partecipò in massa alle feste, essendo stato permesso l'uso della maschera, tanto che la via della Giovecca non fu in grado di contenere la folla e la vera e propria marea di carrozze. La regina Margherita era donna molto pia e devota, in grado di offrire una lezione di correttezza e di coerenza in quel contesto di esteriorità, di formalità e di frivolezze. Consapevole di quel che significassero i tre sacramenti appena ricevuti, la penitenza, l'eucarestia e il matrimonio, almeno in un primo momento preterì disertare la baldoria e recarsi nella basilica di Santa Maria in Vado e al convento delle monache di San Vito, le quali furono liete di suonare alla sua presenza quelle musiche che le avevano rese celebri.

Fu dato  in quell'occasione uno spettacolo certamente nuovo per tanti ospiti: la corsa delle barchette. Protagoniste erano trenta donne comacchiesi, quattro per imbarcazione, più una quinta seduta a poppa, che suonava il cembalo. Il percorso lungo il canale dei Giardini andava dal ponte nei pressi della chiesa di Santa Maria della Rosa fino alla fossa del castello. Le donne, in abiti succinti - ogni equipaggio portava vesti dello stesso colore - erano inghirlandate di fiori e vogavano vigorosamente, fingendo di tanto in tanto, per divertire gli spettatori, di cadere in acqua per poi risalire sulle piccole imbarcazioni. I premi consistettero, come allora era in uso, in pezze di stoffa e in altri vari donativi.
Una volta partiti gli augusti sposi, i quali, fra l'altro, ebbero agio di assistere a una rappresentazione in lingua latina della storia di Giuditta e Oloferne, eseguita dagli scolari dei gesuiti, la pia regina Margherita non si dimenticò di Ferrara. Da Milano, infatti, dove sostò a lungo aspettando la buona stagione per raggiungere la Spagna, inviò in dono alla cattedrale di Ferrara preziosi paramenti sacri di broccato d'oro e destinò la somma di ottomila scudi da distribuire ai poveri.

Ma ormai era giunto il tempo del ritorno del papa a Roma. Prima della partenza egli volle sistemare le cose ferraresi, nominando suo cameriere segreto il marchese Guido Bentivoglio, allora ventiduenne e destinato a una prestigiosa carriera, donando alla cattedrale sei candelieri d'argento, accogliendo il Consiglio Centumvirale nella sua camera da letto perché afflitto dalla solita podagra, raccomandando fedeltà piena ai ferraresi e promettendo ulteriori gratificazioni alla città.
Il 27 novembre, dopo aver benedetto il popolo nella cattedrale, Clemente VIII lascia Ferrara varcando la porta di Castel Tedaldo, subito dopo definitivamente chiusa, e si avvia alla volta di Cento e di Bologna. Restituito alla città eterna, egli volle che ogni anno venisse ricordato il giorno dell'entrata dell'Aldobrandini a Ferrara mediante celebrazione di una messa solenne, con tanto di visita e offerte dei conservatori, priori e senatori di Roma alla chiesa di Sant'Eustachio, omaggi ad Ara Coeli e corse di cavalli in tempo di carnevale.

Restava per Ferrara una oscura ipoteca. La città evidentemente non offriva sufficienti garanzie di fedeltà e ubbidienza. Già il cardinale Pietro Aldobrandini aveva pensato bene di fare appostare, sopra i tre baluardi costruiti da Alfonso II a meridione del nucleo urbano, alcuni cannoni con le bocche rivolte verso la città. Ma Clemente VIII non era ancora tranquillo e prima di partire espresse l'intenzione, che equivaleva a un ordine, di costruire una fortezza in piena regola. Il che avvenne in breve tempo. E quella imponente costruzione per due secoli e mezzo dominò il panorama della città.