Una città mito

Scritto da  Elettra Testi

Gian Franco Rossi nel suo giardino con uno dei suoi cani.Fra realismo e trasfigurazione, l'immagine di Ferrara nei racconti e nei romanzi di Gian Franco Rossi.

"Quando la realtà precorre l'immaginazione, quando i fatti si raccontano da sé (...) allora lo scrittore deve esserne il fotografo, a costo di trasformarsi in arido cronista." Così scrive Gian Franco Rossi nel racconto L'intermediario, del 1987, pubblicato alcuni anni dopo. La frase può essere assunta come dichiarazione di poetica neorealistica, per la volontà di farsi fotografo di un reale che precede l'atto del dire, con una oggettività indipendente dalla presa di coscienza da parte dello scrittore. Mi sembra interessante, percorrendo in parte il ricco cammino della sua produzione, verificare fino a che punto Rossi rimanga fedele a questa intenzione di oggettività naturalistica, e in che misura la tradisca e la superi.


L'opera che pare accostarsi maggiormente alla scrittura naturalistica è La contentezza, del 1981, finalista al premio Viareggio: dieci racconti che piacquero a Michele Prisco, il quale vide IN essi il segno di una "umanità arida". Umanità arida? Oggettività naturalistica? Vediamo. Un rapido dramma si consuma nel tempo breve della catastrofe, nel racconto I pappi, dove incombe l'aria pesante delle campagne della bassa. L'amore adultero di Azeglia, innamorata del cognato, un amore consumato IN amplessi furtivi descritti toccando la corda dell'erotismo, una delle più sapienti nel registro di Rossi, diventa spergiuro: "che muoia mio figlio, se ho mai tradito mio marito" asserisce la donna e, con sequenze essenziali che ricordano Il grido di Antonioni, pochi giorni dopo il destino si compie con la morte del bimbo. "I pappi dei pioppi, la pappa di Pippo, la pappa di Pippo": per calmare il piccino non ci sarà più bisogno di cantare la nenia struggente. Nell'opera di Rossi amore e morte sono già diventati fratelli. Del primo Antonioni ci sono le atmosfere, manca, però, il grido. Maestro di silenzi, Rossi nega ogni commento; della tragedia greca c'è il fato inesorabile, ma il coro tace, quasi che l'autore voglia trattenersi al di qua di ogni intromissione.

Ma i meccanismi narrativi di Rossi non funzionano sempre IN questo modo. IN seguito, essi assumono un andamento circolare dove l'accavallarsi dei pensieri incoerenti, delle idee entusiasmanti, delle ossessioni insistenti regge una "durata" davvero bergsoniana, poiché il tempo continuo della coscienza è scandito dal succedersi degli spazi.

Con tecnica cinematografica, Rossi trasporta il lettore da una panoramica in esterni, per esempio una strada, allo spazio specifico di una casa, quindi lo guida all'interno, per riportarlo, poi, da dove era partito. Attraverso questo tipo di inquadrature a stacco netto e circolare prende corpo buona parte del mondo poetico di Rossi, composto di personaggi che inseguono, in primo luogo, la solitudine, giacché è solo grazie a essa che è possibile un'opaca, malinconica contentezza per questi antieroi della vita che assistono, rimanendone esclusi, allo spettacolo assordante dell'esistenza.

Eppure non si tratta di un'umanità arida, semmai di un'umanità inappagata, tanto essa è tesa al rischio e all'invenzione di un destino. Credo si sia insistito troppo sull'assenza di vita che creature impotenti trascinano nella piatta routine della provincia. Direi, invece, che Rossi trasforma la quotidianità in avventura grazie alla rivincita fantastica sull'esistenza incolore, così che l'usuale monotonia di gesti ripetuti diventa occasione per rincorrere un sogno, un'invenzione, per adescare la vita.

Ricorrono, nell'opera dello scrittore ferrarese, presenze ora inquietanti, ora presaghe, ora dominatrici, veri e propri deus ex machina risolutori della vicenda, emblemi del destino, dell'ignoto, del mistero. È l'autore stesso a suggerirne i significati sottesi, per cui credo di poter affermare che anche nella poetica di Rossi, che pure sembra tanto arresa alle cose, ci sia posto per gli archetipi. L'intenzione naturalistica, quindi, è in gran parte superata e arricchita. Che altro sono, del resto, se non archetipi, i nomi con i quali l'autore caratterizza i suoi personaggi? È tutta da studiare, l'onomastica di Rossi, che, forse, inconsciamente, recupera la tradizione provenzale del senal, dove il nome è destino. Un destino che il narratore dispensa come un Dio, a seconda delle proprie simpatie. E non traggano in inganno le rappresentazioni della città che sembrano visualizzazioni realistiche. Al pari di Moravia, che Rossi considera proprio maestro, egli non è scrittore della natura, non è pittore di paesaggi, ma, per dirlo con Chatwin, "scrittore di città e di CASE", spesso scrittore di strada.

 

Gian Franco Rossi nella sua casa con uno dei suoi cani.La Ferrara di Rossi, però, non è la Roma di Moravia: fatta di vie di malaffare, di cinema a luci rosse, di teatri di avanspettacolo, di mercati della nostalgia; essa è luogo dell'anima, città mito di un mondo sfatto e decadente, fino a diventare "una città di tetti" dove conversano e danzano gatti chagalliani. Anche qui, come si vede, siamo oltre il naturalismo, nelle numerose incursioni liriche che magistralmente frangono la prosa. In tutta la scrittura di Rossi, per esempio, ricorre l'uso dei puntini di sospensione che altro non sono se non un topos dell'ineffabile, dell'indicibile. Dopo tanta perizia nel dire, sembra che lo scrittore ceda le armi di fronte all'impossibile e, attraverso quelle sospensioni, voglia lasciare al lettore il compito di completare l'opera, immaginando.

Pur nella continuità, la narrativa di Gian Franco Rossi si trasforma. Un primo cambiamento sta nel passaggio, provvisorio, poiché in seguito ritornerà al primo amore, dal tempo breve e concentrato del racconto che non ammette pause, a quello dilatato del romanzo. Escono nel 1986 I sogni ricorrenti di Biagio Balestrieri, con prefazione di Roberto Pazzi, una delle prove più alte di Rossi. Applicando allo scrittore un'interpretazione "par lui même", come direbbe Roland Barthes, ossia una lettura fatta attraverso i suoi stessi indizi metaforici, non è difficile vedere in quel mondo onirico una chiara matrice erotica. Il sogno che meglio ne rivela la cifra è quello del giardino fiorito. Il protagonista si muove fra sconfinate aiuole di tulipani, anemoni, di bellissimi fiori azzurri. D'un tratto, i tulipani si piegano, gli anemoni si seccano, i fiori azzurri si mutano in ortiche. Il sogno, che Rossi chiama "della rapina", è una metafora della deflorazione, identificata con la morte. In effetti, Rossi è grande scrittore erotico, ma non alla Miller, alla Moravia o alla Busi. Quello di Rossi è un erotismo contorto, che rimanda al piacere proibito, rubato; è la maschera strappata alla donna irreprensibile, è la trasgressione del travestito, è il suo trucco che si scioglie fra le lacrime, come nell'Aschenbach di Morte a Venezia e nel cinema decadente di Visconti. Eppure, quelle effrazioni sono innocenti, ogni giudizio è sospeso, essendo il coraggio della scrittura l'unico principio etico dell'autore.

Questo ci conduce alla seconda trasformazione. Esce nel 1989 il romanzo L'intreccio, finalista al premio Dessì, dove lo scrittore, varcata la soglia del ritegno, si fa personaggio fra i personaggi. Per la prima volta Rossi affronta il pirandelliano rapporto fra l'autore e le sue figure, definendo se stesso come "uno che ha ancora voglia di inventarsi delle storie (...) un tale che riferisce quello che ha visto e poi lo deforma." Abbandonata la letteratura come delazione, lo scrittore schiude la porta dietro cui spiava le vite altrui per cercare in una via della città mito l'intreccio delle sue trame, giacché, come scrive, per trovare l'ispirazione bisogna esporsi di persona e "andare fino IN fondo al proprio inferno". Ma quell'inferno non è ancora disponibile per intero: occorre che l'unicità di segno e immagine si spezzi e compaia la prospettiva della memoria.

Eravamo in pochi, quella sera, in pizzeria, quando Gian Franco ci raccontò della sua fuga in Svizzera al tempo delle leggi razziali, della sua vita di bambino salvata da un partigiano, della separazione dalla famiglia, del rifugio presso un collegio, della nostalgia per Ferrara. Si freddava la pizza nei piatti, mentre ascoltavamo quell'avventura insospettata: "Perché non la scrivi?" chiedemmo. "Non è ancora il momento" rispose. È arrivato fra il '91 e il '95. Cancellata l'innocenza degli occhi, Gian Franco Rossi ha dissotterrato il momento dell'ingiustizia, della colpa, del rimorso, ed è nata la trilogia ebraico-ferrarese.

Quasi a compendio di quel racconto della memoria e dei suoi tradimenti per cui ogni diario è anche favola, nel 1997 Rossi pubblica Gli amici del buio, gli amici del cinema, arricchito da una testimonianza di Guido Fink. Cinematografi, maschere, cassiere, spettatori sono i nuovi protagonisti poiché il cinematografo è il luogo dell'affabulazione totale, la regione strana dove realtà e finzione convergono, dove l'autore regista può finalmente allestire lo schermo del suo cinema mentale a cui è consentito ogni inganno. Come stupirsi, allora, se per narrare la grande favola a Rossi non basta la prosa e si volge ai versi? Così, lo scrittore, dapprima regista, si trasforma in "acrobata" della fantasia che non smette di regalare emozioni, in funambolo ironico che non cessa di incantarci.

Gian Franco Rossi è morto il 12 aprile scorso.
Quando ho scritto queste note, era ancora in vita.
Non ho voluto modificare una parola: Gian Franco
è fra noi, nelle sue opere e nel nostro affetto. (E.T.)

Da Elettra Testi