Tratte dall'ombra

Scritto da  Lucio Scardino

Tommaso Capitanelli, Madonna col Bambino fra i SS. Pietro, Brigitta e Geltrude.Un volume sponsorizzato dalla Fondazione racconta la storia delle quadrerie ferraresi seicentesche.

Nel numero 12 di questa rivista, presentando ai lettori il volume Antichi e Moderni. Quadri e collezionisti ferraresi del XX secolo, sponsorizzato dalla Fondazione Cassa di Risparmio nell'ambito del fondo editoriale sul collezionismo cittadino d'arte, auspicavo che, retrocedendo come i gamberi, sarebbe stato importante pubblicare poi un volume sulle quadrerie ferraresi del Seicento.

Il desiderio si è avverato: redatto dallo scrivente in collaborazione con Marinella Mazzei Traina, vicepresidente dell'associazione Ferrariae Decus ed erede di un troncone dell'importante quadreria Campori, sta ora per vedere la luce il libro Fughe e arrivi. Collezioni ferraresi del Seicento, incentrato su ben cento raccolte cittadine del XVII secolo.
L'opera, patrocinata dalla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Bologna, colmerà varie lacune bibliografiche e sfaterà radicati convincimenti storiografici: almeno questo è l'intento dei curatori.


Si è, infatti, sempre visto il Seicento ferrarese come un secolo di assoluta decadenza: la Devoluzione del 1598 segna in realtà l'inizio di un progressivo, costante depauperamento del patrimonio artistico di origine estense, ma nel contempo provoca una nuova committenza, certo meno brillante della precedente, ma non del tutto indegna. D'altronde, anche in altre capitali di provincia vicine al Ferrarese (Mantova e Parma, ad esempio), si registra un'involuzione artistica: tutto viene accentrato nelle grandi capitali (Roma in primis) e le scuole "periferiche" decadono sempre più, nonostante il prestigio goduto in passato.  Ferrara diviene quasi un'emblema, un paradigma di questo nuovo contesto e i documenti presentati nel libro lo confermano in pieno.

Le famiglie nobili che non hanno voluto seguire il duca Cesare d'Este a Modena, continuano a competere fra loro, tentando di emulare "sfarzi romani" o eleganze veneteggianti: nasce una nuova committenza borghese che si affianca a quella ecclesiastica, comunque sempre più forte.
Basti scorrere l'elenco dei proprietari dei quadri riesumati dal libro odierno: insieme ai soliti nobili e a canonici e ai cardinali, compaiono orefici, droghieri, possidenti terrieri, banchieri, gabellieri, osti, causidici, merciai, dottori in legge, setaioli, architetti, notai.

Certo, non tutti sono colti e consapevoli come il marchese Roberto Canonici, "antiquario" che nel 1632 fece pubblicare il proprio testamento per precisa disposizione, allo scopo di render noto l'inventario della propria cospicua collezione (e di ciò ragguaglia Adriano Cavicchi, in una postfazione al libro), ma neppure debosciati come altri nobili. Si pensi solo che per futilissimi motivi (un mancato invito a un "festino di servitori") nel 1674 si ammazzarono reciprocamente Alfonso Varano e Lodovico Strozzi, nonostante fossero stati educati al culto delle "arti belle" e dell'umanesimo.

Nel 1681, invece, nel cantone all'inizio di corso Giovecca, il marchese Borso Calcagnini fu ucciso ad archibugiate dai due cugini Valeriani, per via dei comuni amori con una monaca del monastero di San Guglielmo.
Ebbene, i Varano, di origine marchigiana (un tempo signori di Camerino), risultano fra i più sensibili collezionisti del tempo: in Fughe e Arrivi compaiono gli inventari delle quadrerie sia di Carlo Varano sia della sorella Costanza Varano-Calcagnini, rispettivamente padre di Alfonso e madre di Borso, i due disgraziati nobilastri.

Tra i circa duecento quadri ricordati, sono le opere di maestri come Scarsellino, Bononi, Guercino, a far ipotizzare committenze dirette da parte dei due fratelli Varano o dei loro genitori. Non tutti i giovani ferraresi ricchi si dedicavano esclusivamente ai duelli: nel 1622, a soli 26 anni, morì il marchese Cesare Turchi, lasciando agli eredi circa cento dipinti, grandi arazzi e vari manoscritti poetici (frequentava l'Accademia degli Intrepidi con lo pseudonimo di Macerato).

Ma i sin qui inediti inventari, rintracciati soprattutto nei fondi notarili dell'Archivio di Stato di Ferrara, illustrano talora in dettaglio anche gli "ambienti" in cui questi collezionisti vivevano la loro quotidianità: lussuosi arazzi alle pareti, specchiere alla veneziana, raffinate statuette sui ripiani dei mobili.  Ciò avveniva a Ferrara, ma anche nelle residenze della provincia: si pensi che nel 1673 il marchese Francesco Estense Tassoni conservava nella propria villa di Casalecchio di Quacchio (popolarmente detta "delle statue") ben duecentoventicinque quadri; che nel 1623, a Copparo, il marchese Ottavio II Thiene ospitava sessantacinque dipinti (la sua residenza è ora il Palazzo Municipale); che nel 1673, a Codigoro, il conte Francesco Crispi conservava una sessantina fra quadri e scenografie dipinte; che nella casa di Crespino (con un centinaio di quadri ai muri), la nobile Virginia Turchi-Bevilacqua aveva ormeggiato una fastosa imbarcazione, sorta di "bucintoro" alla veneziana.

Per i cultori della numeri segnalo che la quadreria più cospicua risulta quella del marchese Roberto Obizzi (nel 1634 viveva in via Saraceno, insieme a trecentoventicinque dipinti) e che, per essere inseriti nel libro, gli inventari via via "scoperti" negli archivi dovevano riportare liste di almeno trenta pezzi, a indicare un minimo di volontà collezionistica da parte dei proprietari.

Gaspare Venturini, Riposo durante la fuga in Egitto.Oltre a mutare le coordinate della storia del collezionismo cittadino del Seicento (in pratica, nessuna delle raccolte suaccennate è ricordata nel pur pregevole catalogo della mostra La leggenda del collezionismo. Le quadrerie storiche ferraresi), i documenti trascritti nel libro forniscono nuovi apporti alla conoscenza di famosi palazzi e di personaggi ferraresi.
Per esempio, sono stati ritrovati gli inventari della famiglia Cybo, ossia di Francesco, figlio di Marfisa d'Este (morta nel 1608), con varie indicazioni relative alla famosa palazzina in Giovecca.
Oppure quelli di Ottavio II Thiene, marchese di Scandiano, che nel 1623 era affittuario degli Estensi a Palazzo Schifanoia.

I marchesi Villa, invece, nel 1642 acquistarono dagli Estensi il Palazzo dei Diamanti: ebbene, si è rinvenuto un loro inventario di qualche anno prima (il 1637), con l'elenco di quadri, mobili e suppellettili nella casa di Ripa Grande, poi trasportati nel celeberrimo palazzo rossettiano.

Ma la "topografia" collezionistica investe anche altri edifici ferraresi ancora oggi famosi: il Palazzo Tassoni di via Ghiara (sede della facoltà di Architettura), il Palazzo del Seminario di via Cairoli, il Palazzo Sacrati di corso Ercole d'Este.
Il libro è completato da una sorta di dizionarietto biografico incentrato sugli artisti ferraresi del Seicento, in un moderno aggiornamento delle ricerche erudite dei Cittadella: per non disperdere frammenti d'archivio legati a committenze, stime, nozioni di vario tipo, rinvenute nel corso di ricerche incrociate tra i notarili "indici delle parti" e le cronache annalistiche, si sono sistemati alfabeticamente i risultati di queste spigolature. In questo modo si è arricchita la conoscenza dei grandi artisti ferraresi (Scarsellino, Bononi, l'architetto Aleotti) e contemporaneamente si sono tratti dall'oblio e dall'ombra nomi di artefici ignorati anche dalle fonti storiografiche più importanti (Brisighella, Baruffaldi, Scalabrini, i due Cittadella).

È questo il caso di Alessandrino Casiglieri, Carlo Antonio Griffini, Ludovico Lanzoni, Antonio Mezzi, Francesco Pullini, Carlo Spiga, riesumati solo oggi, a distanza di tre-quattro secoli dalla loro attività.
In genere, questi misconosciuti pittori erano stimatori di eredità e di corredi dotali: e i loro inventari sono sicuramente più interessanti di quelli redatti dai periti del Monte di Pietà (in genere si trattava di sarti), se non dagli stessi notai.
Se non altro, i periti-artisti indicano spesso tecnica, misure e supporti dei dipinti e riportano l'attribuzione dell'opera. Infatti, la difficoltà che nasce dalla lettura di questi antichi inventari è costituita dall'identificazione delle opere: talvolta si assiste comunque al caso di fortunati ritrovamenti.

Nel libro Fughe e Arrivi compare l'inventario delle opere lasciate nella sua bottega da Camillo Ricci, al momento della morte, nel 1626: considerato il miglior allievo dello Scarsellino, questo pittore aveva esordito nel 1606, appena sedicenne, firmando una tela nella chiesa parrocchiale di Filo d'Argenta. Tra le sue pale, i vecchi storiografi segnalano la Resurrezione di Nostro Signore, collocata in un altare della chiesa ferrarese di San Benedetto, poi trasferita in sagrestia, dove se ne perdono le tracce.

Mariangela Novelli ha ipotizzato che il dipinto sia andato distrutto a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ma le ricerche per questo libro hanno portato alla scoperta, in una collezione privata ferrarese, di un frammento della pala (olio su tela di cm 35x44), con le Pie Donne e gli Apostoli che assistono attoniti alla resurrezione di Cristo: il dipinto riportava una vecchia quanto acuta attribuzione di Vittorio Sgarbi al Ricci, per l'appunto.

Più legato al linguaggio dell'altro protagonista della pittura ferrarese del primo Seicento, Carlo Bononi, sarebbe stato il raro Gaspare Venturini, autore di una tela con il Riposo durante la fuga in Egitto (cm 50x64,5), anch'essa in collezione privata. Ma, nel contempo, il delizioso quadro non è lontano dal mondo dello Scarsellino, grazie al sagace cromatismo contrappuntato dalla composizione "a piramide" delle figure che si dipartono dal San Giovannino: la scena è ambientata in un arioso paesaggio, contrassegnato da una casa con torre colombaia, squisitamente ferrarese.

Recuperato da una parrocchiale cittadina, appare altresì la Madonna col Bambino fra i SS. Pietro, Brigitta e Geltrude, firmato da Tommaso Capitanelli e un tempo nella chiesa di San Niccolò. Questo dipinto fu tolto dal suo altare nel 1705 e sostituito con un Angelo custode: della pala di Capitanelli, pittore ferrarese di metà Seicento d'origine svizzera, da allora si persero le tracce. In realtà, è stata recentemente rintracciata in una raccolta privata della città e proviene, forse, dalla collezione dei marchesi Fiaschi. Sul retro della tela, opportunamente restaurata da Alberto Sorpilli, compare infatti un albero genealogico settecentesco della nobile famiglia, che presumibilmente l'aveva acquistata dal parroco di San Niccolò: oltretutto abitava nei pressi della chiesa, ossia nell'odierna via Garibaldi.

Il libro è intitolato Fughe e Arrivi, perché racconta storie di dispersioni e di arricchimenti: al secondo caso si riferisce una Sacra Famiglia del pittore romano Cavalier d'Arpino (1598-1640), oggi presso il Museo della Cattedrale di Ferrara, ma proveniente dalla raccolta privata del cardinale Girolamo Crispi. Nato a Ferrara nel 1667, il nobile prelato visse molti anni nella capitale dello stato pontificio, dove acquistò molte opere di pittori contemporanei.  Nominato nel 1720 arcivescovo di Ravenna, portò molti dipinti nella città romagnola, ma non l'opera che ci interessa: un olio su tela circolare dal diametro di 150 centimetri.

Infatti, il quadro non compare nell'inventario dei duecentodiciannove dipinti trasportati da Crispi dalla sua residenza di Roma alla sede vescovile di Ravenna: fu, quindi, da lui acquistato successivamente, forse intorno al 1744, quando venne nominato arcivescovo di Ferrara. Morendo due anni dopo, destinò suo erede il Capitolo Metropolitano, lasciandogli oltre cinquecento dipinti, ben presto venduti. Il quadro del Cavalier d'Arpino, invece, venne collocato nel coro della Cattedrale. Fa ora bella mostra di sé nel Museo inaugurato in concomitanza dell'ultimo Giubileo, nell'ex-chiesa di San Romano.