Viaggio nell'Europa delle Corti

Scritto da  Roberto Pazzi
Ariosto e gli Arabi, di Borges Un episodio ariostesco alla Corte Estense riemerge in una conferenza parigina

Sono i versi della poesia 'Ariosto e gli Arabi' di Jorge Louis Borges. In tempi di proclamata divisione delle culture cristiana e araba, queste radici comuni, del gran sogno della Poesia, evocate dalla voce di Sharazade che si fonde con quella di Turpino, mi sono sembrati ideali per calarmi nel tema del viaggio nell'Europa delle Corti. Almeno per la Corte che mi compete, quella Estense.
E per un inevitabile gioco di rispecchiamenti, che spero mi verrà perdonato, ho pensato subito al rapporto dell'Ariosto con la Corte Estense, come riflesso di quello che ancora vivo come scrittore con la mia città.
Ecco alcuni miei versi sul girovagare oggi, nelle vie di Ferrara, come se vagassi in un altrove che spalanca la città al mondo intero, da un dedalo di vie e di piazze:

Metteva nome Stanley a fiumi
che nessuno conosceva.
E sulle carte vergini dell'Africa
città e cascate apparivano
evocate da quell'esperto di nomi.
L'esploratore non rivelò mai
la formula delle sue evocazioni,
ma a volte, alzando il capo
in città a leggere i nomi
delle vie, in me rivive
quell'amore per gli sconosciuti
prigionieri nel sonno delle pietre,
nell'incoerenza dell'acqua.

Che rapporto ebbe Lodovico Ariosto con la Corte dei suoi Signori, gli Estensi ?
Come veniva vissuta dal poeta ferrarese la dipendenza molto stringente del suo lavoro che pure gli era stato assegnato in virtù della sua fama di poeta, e cioè dalla capacità riconosciutagli dal Potere di creare opere che s'innalzavano a canone estetico di un'epoca e davano alla Signoria Estense lustro e consenso ?
Alla base della mia curiosità di questo aspetto dei complicati e spesso ambivalenti rapporti fra cortigianeria e committenza, fra libertà espressiva e controllo programmatico, fra Potere e Cultura, sta il bisogno di capire quanto ancora di quel problema sia aperto in un Paese come l'Italia dove sembra permanere fra Politica e intellettuali un disagio originario e costitutivo, sembrerebbe quasi inguaribile.
Non starò a citare Gramsci per questo aspetto del nostro costume nazionale. Tutti sanno come i chierici della cultura siano stati vissuti prima che da Gramsci, dalla generazione che aveva fatto il Risorgimento, quella di Luigi Settembrini e di Francesco De Sanctis, con un certo malcelato sospetto. Ma torniamo al tema. Della vita privata dell'Ariosto non si sa molto. Negli anni trenta il critico Michele Catalano ne ha scritto, ma ha dovuto lui pure arrendersi sulla soglia di qualcosa di indecifrabile sulla vita di quest'uomo sfuggente, che ha fatto di tutto per seminare la nebbia dietro di sé e sparire nella sua opera, come ammantandosi in una nuvola.

Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, edizione di Venezia, Valgrisi, 1586, Biblioteca Comunale Ariostea.Circa verso la fine degli anni ottanta mi prese l'ossessione di romanzare la vita di Lodovico Ariosto, sentendo sul collo il soffio della vita del grande che, cinque secoli fa aveva vagato nelle strade della mia Ferrara. Ma sapevo poco, e nulla della sua biografia, del figlio Virginio avuto da Orsolina Sassomarino, e più tardi della sua relazione nascosta con Alessandra Benucci, amata dal 1513 ma sposata segretamente solo nel 1527 per non perdere il beneficio ecclesiastico di Sant'Agata, dei figli avuti da lei, di tutti quei fratelli a cui dovette far da padre, dell'incarico gravoso e pericoloso dei suoi Signori di amministratore della Garfagnana, dal 1521 al 1524, del suo rifiuto di seguire il suo signore, il collerico cardinale Ippolito a Budapest, dove era stato nominato arcivescovo nel 1517.
Ecco entrato in campo il personaggio centrale delle mie fantasie sul grande poeta, il cardinale Ippolito. Telefonai allora un giorno a Lanfranco Caretti, il grande critico ferrarese che insegnava a Firenze e che mi era stato largo di consigli, anni prima, quando concludendo gli studi universitari studiavo Saba per la mia tesi di laurea in estetica, a Bologna, con Luciano Anceschi. Mi pare ancora di sentire la sua voce squillante davanti al mio proposito di scrivere il romanzo della vita di Lodovico Ariosto : «Non lo faccia Pazzi, vedrà, non ci riuscirà, rimarrà risucchiato dal Furioso volendo scrivere la vita di quell'uomo ? non ci riuscirà, si perderà nel poema». Il più grande critico moderno dell'Ariosto aveva ragione. 
Non riuscii mai a scriverne nemmeno qualche pagina, nemmeno un racconto. Mi arrendevo sempre davanti a un particolare della sua vita di Corte, legato al cardinale Ippolito che continuava a fermentare nella mia fantasia, pur dovendo riconoscere che mi procurava solo una falsa partenza. Forse mi coinvolgeva troppo. Perché ritrovavo nella fredda sordità alla Poesia rivelata da quel particolare qualcosa che continuava ad aleggiare nelle menti degli uomini, cinquecento anni dopo, e non solo nella mia città. E oggi mi pare di dover riprendere ancora quel filo, per mostrare come suggestioni ancora la mia mente.
Sono comunque in bella compagnia, in questa suggestione, se prima di me Sigmund Freud rimase così colpito dall'episodio del cardinale Ippolito d'Este a colloquio col suo poeta, da mettere le sue parole in epigrafe al saggio sulla Gradiva di Jensen, un saggio che cerca di scavare nella genesi di un'opera d'arte, relazionandola all'antica paura che gli uomini d'ordine hanno della fantasia, come fattore destabilizzante.
Dunque l'episodio è questo. L'Ariosto, fra un incarico e l'altro che lo distraeva dai suoi studi poetici, aveva dato mano fin dal 1504 all'Orlando Furioso.
Un bel giorno, circa due o tre anni dopo, decise di leggere alcuni passi del poema non ancora finito al suo signore, il cardinale Ippolito d'Este, fratello del duca di Ferrara, Alfonso II.
Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, frammenti manoscritti, carta 104, con nota di pugno di Vittorio AlfieriChi era mai questo personaggio? Un uomo quanto meno poco portato per la carriera ecclesiastica, se fece accecare di un occhio in un agguato notturno il fratellastro Giulio, dei cui bellissimi occhi azzurri s'era invaghita Angela Borgia, cugina della cognata Lucrezia, duchessa di Ferrara. Riccardo Bacchelli ha raccontato bene che tipo di personaggio fosse nel suo romanzo La congiura di Don Giulio d'Este (1931). 
Il figlio del duca Ercole I e di Eleonora d'Aragona era assai portato per le armi, arreso e costretto alla porpora per motivi politici dal padre che avrebbe sognato un Estense sul trono di Pietro, in competizione coi Medici di Firenze che avevano avuto Leone X.
Erano tempi in cui si diventava cardinale e anche papa, per ragioni molto lontane dalla fede e dalla vocazione al sacerdozio. Il papa di quel tempo, Alessandro VI, aveva avuti i suoi figli - Cesare, Giovanni e Lucrezia - da Vannozza de' Cattanei, e celebrava messa davanti ai dipinti del Pinturicchio che per le forme della Vergine Maria si era ispirato alla bellissima Giulia Orsini, amante ufficiale del pontefice. E le Corti d'Europa gareggiavano a imparentarsi con i figli del papa.
Dunque il poco mistico cardinale, dopo aver ascoltato in una delle sale del Castello Estense alcuni episodi dell'Orlando Furioso, eccolo uscire con un'incredibile domanda: «Messer Lodovico, dove siete andato a trovare tante coglionerie?»
Al cardinale garbava più del Lodovico poeta, il segretario particolare, che doveva sfilargli gli stivali la notte, prepararlo a coricarsi togliendogli la casacca, scrivergli le lettere. Ma la brutalità della domanda ha una sua orrenda provvidenzialità. Perché il cardinale si scopre come tutti gli uomini che reagiscono con risentimento difensivo davanti all'arte, per tanti basti l'esempio del disagio di Camillo Benso di Cavour che reagiva malissimo davanti alla musica, 'troppo difficle' per lui. Da dove viene tutta quella massa di parole, quella selva di episodi ? Dove si trovano la fucina, il buco, l'antro da cui escono ?
Enrico Corty, Ferrara, palazzo Paradiso, Sala Ariosto, disegno a lapis e trascrizione delle lapidi.L'impertinente domanda rivela in sostanza il bisogno di colonizzare l'infido territorio barbaro del fantastico. Dimostra il disagio insopportabile degli uomini che si fondano sul principio di realtà, quello che Freud illustrava nel suo saggio sulla Gradiva di Jensen, toccando il terribile potere della Letteratura di scardinare i pilastri della realtà, rivelando forze della creatività che il Potere non sa controllare.
Ma ne emerse, almeno per me, una lezione di vita, che vorrei riproporre soprattutto ai giovani se nutrono una certa passione per la scrittura. Come l'incallita aridità del cardinale ferrarese, la grossolana sordità dell'ambiente in cui viviamo, può essere uno straordinario contributo a difendere e a far crescere una vocazione letteraria, una passione esclusiva per la scrittura. L'Ariosto continuò a scrivere e compì il suo capolavoro, non scoraggiato da quella reazione, che non saprei definire se più stolta o impaurita.
Una dichiarazione di fede può nascere solo davanti a una persecuzione autentica, di fronte a un abbassamento scoperto della tensione morale di un'esistenza. Diffidiamo di un ambiente troppo favorevole e incline ad accogliere le nostre primarie ossessioni.
La pianta verrà su male, troppo innaffiata e concimata per ritagliarsi da sola la via verso il cielo, e alzarsi ben ritta su se stessa. Una sorte analoga toccò a Recanati a un altro grande poeta, secoli dopo. Nonostante tutte le lamentele di Leopardi, senza la sordità, l'ostilità, il provincialismo di Recanati non sarebbe sorta la sua modernità, la straordinaria consonanza della sua poesia con le voci più alte di quella europea.
Ecco perché ho voluto scegliere un episodio in controtendenza col mito delle Corti, che sono nidi dorati all'esterno, ma celano al loro interno la stessa sostanza umana di qualsiasi altro luogo. Dove l'uomo è quasi sempre colui che sa riconoscere i Grandi soltanto da morti.

[Questo articolo è una trascrizione riveduta dell'intervento dell'autore al convegno 'L'Europa delle Corti', organizzato dal Premio Grinzane Cavour presso l'Istituto Italiano di Cultura di Parigi, il 24 e 25 novembre 2005.
La poesia di Roberto Pazzi citata nel testo è 'I nomi', dalla silloge Talismani, pubblicata da Marietti]