Le vite di Renzo Bonfiglioli

Scritto da  Marco Dorigatti

La multiforme figura di un protagonista della Ferrara ebraica del NovecentoIl frontespizio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto nella rara edizione del 1516 posseduta anche da Renzo Bonfiglioli.

Ferrarese, discendente da antica stirpe ebraica. Irriducibile antifascista, e per questo internato in un campo per dissidenti politici. Nel dopoguerra, all’indomani della Shoah e delle persecuzioni razziali di cui fu vittima con tutta la sua famiglia, difensore della dignità ebraica offesa nonché promotore di ideali pacifisti ispirati ai valori della Resistenza. Ma in pari tempo straordinario bibliofilo, creatore di una collezione di libri senza pari. E inoltre: raffinato cultore di musica, instancabile organizzatore di eventi musicali che diventeranno leggendari. Svariati interessi, molteplici attività, esistenze parallele: unica però la passione che ispirò, guidò e motivò la vita – o piuttosto le vite – di Renzo Bonfiglioli, membro di quella comunità ebraica ferrarese affabile e operosa, brutalmente cancellata e poi restituita alla memoria e alla coscienza collettiva – risorta nella poesia, se non dalla morte (giusto il mito di Orfeo) – grazie alla struggente evocazione del suo massimo cantore, ossia Giorgio Bassani. Anzi, qualcosa di più, se è vero che la storia della famiglia Bonfiglioli si interseca e in parte si immedesima con quella stessa dei Finzi-Contini, ovvero il suo corrispettivo reale; come si avrà modo di dire più distesamente nelle pagine seguenti, che intendono rievocare l’opera e la figura di un uomo, il lato umano e quello pubblico, verso cui la città che gli diede i natali conserva ancora un debito di gratitudine. Ma procediamo per ordine, cominciando dall’inizio. Figlio primogenito di Giacomo Bonfiglioli (1864-1941) e Maria Sacerdoti (1874-1940), Renzo era nato a Ferrara il 17 marzo 1904. Dopo aver frequentato il liceo Ariosto si era iscritto a Scienze Politiche a Firenze, illuminata in quel periodo – erano i primi anni dell’oscuro Regime – da intellettuali come Gaetano Salvemini, Carlo e Nello Rosselli e altri, i quali rafforzarono in lui, allora "giovane taciturno, chiuso in sé stesso" (come lo descrive Bruno Pincherle in Testimonianze su Renzo Bonfiglioli), ideali antifascisti ai quali resterà fedele per tutta la vita. Dopo essersi laureato con Piero Calamandrei e aver conseguito una seconda laurea in Giurisprudenza, avrebbe voluto intraprendere la carriera diplomatica, presto rivelatasi improponibile per chi, come lui, oltre a ebreo era anche oppositore del Regime. Del resto, in quanto possidente benestante, egli poteva concedersi una vita agiata e finanche svagata senza dover dipendere da un impiego stabile. L’amministrazione delle sue proprietà, infatti, gli lasciava il tempo per dedicarsi agli interessi che gli stavano a cuore, nonché viaggiare molto; e a questo proposito occorre spostare la scena per introdurre un altro personaggio importante in questa storia. Fu proprio nel corso di un viaggio – a Londra, nell’estate del 1926, o forse del ’27/’28 – che un conoscente, dall’Italia, gli feRenzo Bonfigliolice sapere che colà si trovava una giovane di buona famiglia, anche lei ebrea ferrarese. Al che Renzo, vestito impeccabilmente, con quello spiccato senso dell’eleganza che lo distingueva sempre, dovunque andasse, si recò in visita nella cittadina di Aldershot, nel Surrey, a sud-ovest di Londra, dove lei si trovava ospite presso una famiglia inglese allo scopo di apprenderne la lingua – esperienza non certo comune tra le ragazze italiane di allora, ma niente affatto insolita, anzi raccomandata, nelle famiglie ebree, tiene a precisare Ida, oggi un’anziana signora. Allora aveva poco più di 20 anni, capelli scuri, una figura esile, uno sguardo schietto e penetrante (che il tempo non ha per nulla cancellato), e in più una passione maturata e consolidatasi proprio durante quella permanenza inglese: il tennis, del resto assai praticato nella sua famiglia. E così Renzo, dopo averla accompagnata in vari luoghi alla moda, ebbe l’idea di portarla a vedere qualche partita del campionato di Wimbledon; lui che di tennis non si era mai interessato. Ida ne fu colpita, benché (stando alla diretta interessata) pare che lui non lo fosse altrettanto, o perlomeno non da subito; anche se lei – questo sì – riuscì comunque a infondergli una passione, per ora solo sportiva, ma che in qualche modo già li accomunava e che, di ritorno a Ferrara, si sarebbe ben presto estesa oltre la cinta dei campi da tennis. Il matrimonio avvenne a Ferrara nel 1930, seguito da un viaggio di nozze all’Aia, in Olanda. La loro era proprio una vita felice… per ora. A questo punto conviene fare un passo indietro. Chi era la donna anglofila, fanatica di tennis e ora anche compagna di vita di Renzo Bonfiglioli? Ida – all’anagrafe Lili (ma in famiglia sempre Ida) Ascoli Magrini – era nata a Graz in Austria il 31 dicembre 1906. Il padre, Giulio Ascoli, era un medico ebreo costretto a cambiar spesso residenza per questioni di lavoro; morto giovanissimo, oggi è noto per aver fondato, nel 1910, la “Scuola per Infermieri Professionali” di Trieste che porta il suo nome. La madre, Isa (nei documenti ufficialiRenzo Bonfiglioli (il primo a destra) durante la sua interdizione ad Urbisaglia con Mario Pincherle (al centro della foto). Isabella) Magrini, nata a Ferrara il 3 dicembre 1876, fu deportata in Germania come pure suo fratello, Silvio Magrini, e sua moglie, Albertina Bassani. Arrestati nel ’43, i due coniugi furono internati nel campo di Fossoli e di lì deportati a Buchenwald (passando sotto un cancello di ferro che recava in cima l’iscrizione, ben più infernale dell’altra, jedem das seine, “a ciascuno il suo”); Isa, invece, la sorella di Silvio, fu fermata a Cannobio mentre si accingeva a varcare il confine con la Svizzera l’8 marzo 1944 e, dopo essere transitata anche lei per Fossoli, fu trasportata ad Auschwitz dove fu annientata al suo arrivo, il 4 aprile 1944. Ora, i genitori di Silvio e Isa si chiamavano Mosè e Fausta Artom, nomi che da soli basterebbero a evocare l’ascendente ebraico de Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani, dove infatti compaiono tali e quali: "Mosè Finzi-Contini, bisnonno paterno di Alberto e Micòl, morto nel 1863" e "Josette Artom, dei baroni Artom del ramo di Treviso". Ma si tratta degli stessi? O meglio, fu la famiglia di Silvio Magrini – per l’esattezza Silvio Finzi-Magrini – quella su cui furono ricalcate le indimenticabili figure dei Finzi-Contini? Per la verità Bassani, parlando del giardino eponimo in risposta a una domanda che gli veniva posta di frequente, lo negò recisamente: "non è mai esistito, né sono mai esistiti i Finzi-Contini come famiglia, né tanto meno Micòl Finzi-Contini". Ma nel 2000, in un’intervista rilasciata al “Resto del Carlino” alla vigilia della sua morte, lasciò trapelare un segreto custodito per anni, e ammise: "Mi sono ispirato alla famiglia del vecchio professore Magrini". Del resto, lo scrittore aveva pur detto che non aveva inventato i temi o i personaggi del suo romanzo, ma cRenzo Bonfiglioli con la moglie Ida nel chiostro di S. Anna ai tempi del loro fidanzamento.he furono loro a venire da lui, chiedendogli di essere ascoltati; cosa che, beninteso, nulla toglie alla sua arte che, anzi, acquista pertanto l’autenticità del documento vero pur non esaurendosi in esso. La conferma finale arrivò poco più di un anno fa, allorché un articolo firmato da Marco Ansaldo, apparso su “La Repubblica” del 13 giugno 2008, annunciò il ritrovamento nell’archivio nazista di Bad Arolsen di un dossier intestato proprio a “Magrini Silvio”, che ne certificava l’origine: "Padre: Mosè. Madre: Fausta Artom. Nato l’8.1.1881 a Ferrara, Italia. Religione: ebraica. Deportato in Germania. Protocollo numero 598504"; come pure la provenienza: "arrestato il 16 ottobre 1943, è arrivato nel Lager di Fossoli a dicembre". Il che induceva il giornalista a concludere: "È lui, Silvio Finzi-Magrini, dal nome originario, l’uomo la cui vicenda ha ispirato in Bassani la figura di Ermanno Finzi-Contini, capostipite della casata e padre di Micòl". Il dossier comprendeva anche una scheda riguardante Isa, sua sorella, ovvero la madre di Ida di cui ci stiamo occupando: "Magrini Ascoli Isabella fu Mosè e fu Artom Fausta, anni 69". Ed effettivamente, Silvio Magrini può considerarsi la molla ispiratrice dell’ispirazione di Bassani, una figura non meno affascinante nella realtà di quella del professor Ermanno nel romanzo. Dopo essersi laureato in Scienze matematiche, fisiche e naturali a Bologna nel 1905, era diventato libero docente di fisica sperimentale presso lo stesso ateneo; ma vi era stato espulso a seguito dell’applicazione del regio decreto-legge n. 1390 del 5 settembre 1938-XVI con cui veniva vietato l’insegnamento negli istituti statali di ogni ordine e grado da parte di “persone di razza ebraica”. Vistosi sbarrata la carriera universitaria, passò gli ultimi cinque anni della sua vita, ignaro del suo destino, con la moglie, Albertina (nel romanzo Olga), nella sua dimora ferrarese sita al numero 76 di via Borgo dei Leoni dove, secondo alcune testimonianze ancora vive, ogni tanto si affacciava sul giardino dopo aver trascorso lunghe ore nella sua biblioteca. Con loro vivevano, oltre alla madre di Albertina, Elisa (Regina nel libro), la figlia Giuliana, che però non ha alcun rapporto con Micòl ("È un’aggiunta tutta mia", insisté sempre Bassani, senza contare che Giuliana riuscì a riparare in Svizzera e salvarsi; morì nel 1955), e il loro figlio Uberto, che invece vanta più di un parallelo con Alberto: come lui, infatti, morì di linfogranuloma nel ’42 ed è pertanto l’unico sepolto nella monumentale tomba dell’Orto degli Ebrei, il cimitero ebraico posto in fondo a via delle Vigne: "mi si stringeva come non mai il cuore – scriverà Bassani – che in quella tomba […] uno solo, fra tutti i Finzi-Contini che avevo conosciuto e amato io, l’avesse poi ottenuto, questo riposo". Né si può tralasciare il cane Jor, ripreso nel romanzo col suo vero nome: "È un danese – dirà la voce narrante –. Ha un anno soltanto [nel 1929], ma pesa quasi un quintale", il quale era "l’unico a sapere, il solo testimone della cosa che c’era anche tra noi". Tant’è che la signora Ida se lo ricorda ancora, quel cane, visto che da ragazza ci giocava spesso (particolare che emerse, quasi per caso, durante il nostro colloquio, non senza stupore da parte di chi scrive); che fine abbia fatto, non si sa: fu abbandonato a sé stesso quando i proprietari furono arrestati e la casa confiscata. In termini di struttura fDell’incessante e appassionata attività collezionistica di Renzo Bonfiglioli rimangono oggi a Ferrara, presso la famiglia, una parte della collezione dei rami, e di quella dei vetri Uranamiliare, quindi, un’esatta replica dei Finzi-Contini; se non che qui, in questa stessa casa, visse anche la sorella di Silvio, Isa Magrini vedova Ascoli con la figlia Ida, che vi restò fino al suo matrimonio con Bonfiglioli. Ma c’è di più. Oltre al giardino, l’abitazione dei Magrini disponeva anche di un proprio campo da tennis (uno dei più antichi in Ferrara) il quale, negli anni del fascismo, era perfino finito nel mirino della prefettura ferrarese che, allarmata, fece scattare la denuncia, inoltrata al Ministero dell’Interno a Roma il 4 agosto 1941. Lo rivela un documento di recente trasferito dal Museo dell’Olocausto di Washington allo Yad Vashem di Gerusalemme e pubblicato anch’esso su “Repubblica” da Marco Ansaldo. "Una ricca famiglia ebraica di questo capoluogo – avvertiva il prefetto Villa Santa – è proprietaria di un campo da tennis che viene giornalmente frequentato oltre che da diversi israeliti anche da diversi ariani loro conoscenti. Poiché il detto campo di tennis diviene un luogo di convegno, ove gli ebrei possono impunemente riunirsi […], si prega codesto Ministero di esaminare l’opportunità di non consentire agli ebrei campi e palestre private, o, quanto meno, di impedire che questi vengano utilizzati da persone che non siano congiunti del proprietario". E qui, a proposito dei frequentatori esterni, sorge un dubbio. Fu questo il campo frequentato da Bassani in seguito alle proibizioni razziali di quel fatidico settembre 1938, ovvero dopo essere stato dimesso dal Tennis Club Marfisa (nel romanzo "Circolo del Tennis Eleonora d’Este") dove aveva avuto, tra i compagni di gioco, Michelangelo Antonioni e Lanfranco Caretti? Così sembra suggerire l’articolista di “Repubblica”; ma Paola Bassani, figlia dello scrittore e presidente della Fondazione omonima, è di altro parere. Pur riconoscendo la fonte dell’ispirazione del padre nei Magrini, in un’intervista apparsa su “La Nuova Ferrara” il 17 giugno 2008 dichiarò che "Quello che invece è sbagliato completamente è l’idea che frequentasse il loro campo da tennis. Andava invece dalla famiglia Elvira e Guido Zamorani che abitavano e penso abitino ancora, in via Palestro all’angolo con via Mascheraio". Posi quindi la domanda alla signora Ida, testimone di quegli eventi oltre che tennista ella stessa, secondo cui quei due campi in realtà Bassani li frequentava entrambi; più assiduamente semmai l’altro, dei Zamorani, che del resto si trova lì a due passi, anche perché in casa Magrini quello “zucchino ripieno” – come veniva chiamato scherzosamente Bassani – non era del tutto ben visto. Questa precisazione le fece affiorare anche un altro ricordo. Con la promulgazione dei divieti razziali, lei rinunciò a frequentare il Tennis Club Marfisa senza aspettare di venir cacciaDell’incessante e appassionata attività collezionistica di Renzo Bonfiglioli rimangono oggi a Ferrara, presso la famiglia, una parte della collezione dei rami, e di quella dei vetri Uranta via; ma non così Bassani, che quel provvedimento lo aveva lasciato incredulo. "A me di qua non mi manda via nessuno", egli avrebbe detto: pochi giorni dopo fu espulso. Incredulità, la sua, che, se non mi sbaglio, è la stessa che prova il protagonista del romanzo nel ricevere la telefonata di Alberto: "Smentii in tono reciso: non era vero, non avevo ricevuto nessuna lettera del genere; almeno io". Possiamo così tornare ai coniugi Bonfiglioli che, nel frattempo, nel ’31 avevano avuto una figlia, Dori, e nel ’35 un figlio, Geri (all’anagrafe Gerio). Poiché l’appartamento in cui vivevano, a fianco del Castello, cominciava a farsi stretto, Renzo acquistò uno stabile in via Palestro 70, parallela di via Borgo dei Leoni, e la famiglia vi si trasferì nel ’37. Questa sarà la “magna domus” dei Bonfiglioli: un palazzo cinquecentesco con un’imponente scalinata che saliva dall’atrio d’entrata, sormontato da soffitti a cassettoni con decorazioni policrome; man mano arredata con mobili d’epoca, tra cui pezzi unici di squisita fattura, quella che poteva sembrare una casa museo era in realtà esuberante di vita e sempre movimentata, con i cani e i bambini liberi di correre dappertutto. Ma la bufera si stava ormai avvicinando. Nel ’38 la piccola Dori fu bandita dalla scuola del Regno, così come poi, raggiunta l’età, toccherà anche a Geri; e non era che l’inizio. Dopo le persecuzioni razziali veniva ora la volta di quelle politiche. La fede antifascista di Renzo Bonfiglioli, infatti, la sua lunga militanza nelle file della sinistra democratica ("Antifascismo prima, il partito dopo: era la sua frase" secondo la testimonianza di Ireneo Farneti), nonché il suo rifiuto di iscriversi al P.N.F., non erano sfuggiti alla polizia del Regime, che già lo aveva schedato come "antifascista ebreo da internare in caso di guerra". Un sera, verso le sette – era l’11 giugno 1940, appena un mese dalla morte di sua madre, Maria Sacerdoti – due agenti della Squadra politica della questura di Ferrara bussarono alla porta. Andò a rispondere lui; ascoltò la motivazione dell’arresto e poi, all’atto di uscire, disse due parole alla moglie: "Torno subito". In realtà, Renzo Bonfiglioli a casa non sarebbe ritornato se non dopo un periodo di prigionia durato 14 mesi. La scheda deDell’incessante e appassionata attività collezionistica di Renzo Bonfiglioli rimangono oggi a Ferrara, presso la famiglia, una parte della collezione dei rami, e di quella dei vetri Uranl Campo di concentramento di Urbisaglia dell’Abbadia di Fiastra, in provincia di Macerata, lo dichiara "benestante", "italiano", di "anni 36", arrivato la sera del 16 giugno. Per la verità, più che a un campo di concentramento, il luogo assomigliava a un sanatorio: una villa (già dei Giustiniani-Bandini, da tempo disabitata) circondata da un grande parco recintato in cui era consentito passeggiareliberamente, discreta la cucina, consentite le visite dei parenti e perfino qualche breve uscita, purché strettamente necessaria e sotto sorveglianza; tant’è che coloro che, di qui, sarebbero passati nei lager tedeschi lo avrebbero addirittura rimpianto, il campo di Urbisaglia. Ida andò a trovare il marito durante tutto il periodo, una volta anche coi due bambini, come mostra un intero album di foto (di cui qualcuna riprodotta qui). Con tanto tempo libero a disposizione, semmai, il pericolo era quello di annoiarsi. Ma Renzo aveva subito incontrato un amico degli anni d’università, il medico triestino Bruno Pincherle, arrestato (col fratello Gino) assieme a lui, e come lui ebreo antifascista. Ora, Bruno Pincherle aveva una grande passione: era bibliofilo, collezionista di edizioni rare, soprattutto di Stendhal; non solo, ma anche in questo luogo di confino, scarsa e inefficiente essendo la sorveglianza, riusciva a farsi inviare cataloghi di vendita da vari librai antiquari. La strana pratica non mancò di incuriosire l’amico; ma qui conviene cedere la parola a Pincherle: Un pomeriggio, mi arrivò un pacchetto che conteneva un’opera lungamente, e invano, cercata per anni. Renzo, al vedere la mia gioia, sentì che anche la bibliografia (o – se vogliamo usare la parola esatta – bibliomania) poteva essere una forma di evasione, una maniera di andare (pur essendo rinchiusi) “à la chasse au bonheur”. Così, egli mi chiese d’introdurlo nel misterioso gergo dei cataloghi e d’insegnargli la maniera di trasformare quelle scarne informazioni in immagini vive. Dopo aver iniziato con opere di storia ferrarese, Renzo trovò subito quello che sarebbe diventato il suo settore principale, tanto che – dirà Pincherle – "Ha il suo atto di nascita nelle squallide soffitte di quel campo di internamento la sontuosa Raccolta Ariostea di Renzo Bonfiglioli, oggi, forse, la più completa che esista". Pertanto, se Primo Levi nel momento più buio della sua (ben altrimenti atroce) prigionia si rivolgerà, per rinfocolare in sé e in altri le faville della spenta umanità, a un testo etico qual è il dantesco canto di Ulisse, Bonfiglioli si voltava invece all’Ariosto, ovvero alla sua giovialità non offuscata dal male, al suo senso della vita apparentemente svagato eppur sempre impegnato (tratti che fanno da specchio alla personalità di Renzo); anche lui (come Levi) avendo riscoperto quel suo autore forse per la prima volta dDell’incessante e appassionata attività collezionistica di Renzo Bonfiglioli rimangono oggi a Ferrara, presso la famiglia, una parte della collezione dei rami, e di quella dei vetri Uranopo aver lasciato i banchi di scuola, segno che la letteratura, quella grande, prima o poi si incontra sempre con la vita, talvolta nelle situazioni più impensate. Col tempo la raccolta si allargò anche ad altri settori, come ad esempio le edizioni originali dell’Ottocento italiano, allora ancora poco ricercate ma pur sempre rare. Renzo le inseguiva con quell’amore che soltanto un altro collezionista avrebbe potuto capire, nella fattispecie Pincherle che di quelle trepidazioni ci ha lasciato ricordi come questo: "fu un giorno di festa per lui (e per me) quello in cui gli arrivò un esemplare unico de I Promessi Sposi impresso su carta paglierina, fatto sontuosamente rilegare dal Manzoni stesso in marocchino rosso e arricchito da una sua dedica alla nipote Luisa e da un ritrattino a matita tracciato da Massimo d’Azeglio". Di siffatti volumi Renzo riempì intere di casse di ferro, nascoste (non senza grave rischio) nella soffitta in cui alloggiava. Ma alla fine si ammalò, tanto da dover essere dimesso e trasferito altrove (sempre sotto la sorveglianza della polizia), come specifica la scheda del campo: "eliminato perché partito il 14 agosto 1941 per ricovero in una casa di cura di Bologna". Toccò alla moglie Ida andare a recuperare quei preziosi volumi. Ahimè, come si sarebbe rivelato in seguito, proprio il Manzoni, "il bellissimo impeccabile Manzoni, mostrava ora la sontuosa rilegatura e le pagine guaste dall’acqua penetrata nella cassetta di ferro nella quale era stato troppo a lungo sepolto per sottrarlo alle rapine fasciste". Sarà vero che anche i libri, partecipi delle tragedie umane, ne recano le piaghe. Nella primavera del ’44 il cerchio attorno agli ebrei si chiude fatalmente; proprio in questi mesi ha inizio l’odissea di Primo Levi. A Renzo Bonfiglioli non resta che un gesto disperato: la fuga in Svizzera con tutta la famiglia, ben sapendo quali pericoli comportasse quel ‘folle volo’ (costato la vita a Isa, la madre di Ida, e a tanti altri). Una volta in Svizzera, Renzo si stabilisce a Ginevra e vi resta fino al luglio del ’45, conducendo una vita peraltro elegante, come era nella sua natura, e incontrandosi con altri antifascisti e intellettuali che come lui avevano trovato riparo colà; "qui la guerra non si sentiva proprio ", precisa la signora Ida. Ma a guerra finita, ritornando a Ferrara, i Bonfiglioli trovano la casa razziata e semidistrutta, depredati i bei mobili. Renzo però non si scoraggia; anzi, coglie l’occasione per sostituire quanto manca con altro ancora più raffinato. Sempre alla ricerca di tutto ciò che è bello, inizia nuove collezioni, dagli stampini in rame per la cucina alle cristallerie di Uranglas, dalle incantevoli fluorescenze verdi o gialle; del resto il mercato è favorevole. Anche sulla sua scrivania torna la normalità di una volta, "con tutti i suoi oggetti allineati in modo quasi maniacale, le matite e le altre cose – quelle che la signora Ida chiamava “intrigacà” " come racconta Benedetto Ghiglia. Ma non è che il lato privato di un uomo che, oramai, viene considerato anche a livello nazionale il portavoce del popolo perseguitato. Incaricato dal C.L.N. di riorganizzare le comunità disperse, diviene ben presto consigliere e presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane prima, e poi, dal ’63 fino all’ultimo giorno della sua vita, vice presidente e presidente della Federazione Sionistica Italiana. Durante i rigurgiti del fascismo e dell’antisemitismo, che non mancano nemmeno a Ferrara, è attorno alla sua scrivania, in casa sua, che si riuniscono i membri del comitato per deliberare fino a notte fonda, tenendosi svegli a forza di caffè. Personalità laica (come pure Levi), ma profondo conoscitore della millenaria storia del suo popolo, egli era animato da una visione che intendeva iscrivere la questione ebraica tra i valori della Resistenza, e si batteva – sono sue parole – per "tenere desto negli anziani e far vibrare nei giovani il culto della Resistenza, in quanto sintesi di volontario sacrificio ed espressione storica ideale di tutto l’antifascismo italiano ed europeo". Se è vero che i suoi impegni erano anche, senza eccezione, le sue passioni, non si può certo tralasciare la musica, ovvero il suo contributo alla scena musicale cittadina. Nel primo dopoguerra, allorché le istituzioni musicali erano ancora paralizzate e le strutture fisiche danneggiate dai bombardamenti, Bonfiglioli, alla guida di un gruppo di ferraresi, tra cui il dottor Giuseppe Minerbi, l’avvocato Ireneo Farneti e il maestro Benedetto Ghiglia, fonda la Società Ferrarese dei Concerti o, come preferiva dire Renzo, “esseffedici”. In funzione dal 1946 al 1955, la Società ripristinò una regolare attività musicale in una città ancora attonita e ammutolita dagli eventi bellici, promuovendo una serie di concerti destinata a divenire memorabile. Concerti, si badi, non solo da lui organizzati, ma il più delle volte anche sovvenzionati di tasca propria. Basti solo ricordare il concerto di musica contemporanea con Materassi e Dallapiccola, il secondo messo in cartellone daRenzo Bonfiglioli con il nipote Ariel.lla Società, conclusosi (come di consueto) con una cena in casa Bonfiglioli. Dopodiché venne il momento di compensare i due esecutori, che peraltro avevano mostrato insolita bravura. E Bonfiglioli, fingendo di fraintendere gli accordi telefonici precedentemente presi da Ghiglia, corrispose ai due interpreti il doppio del convenuto (ossia 25 mila a testa anziché complessivamente); al che Dallapiccola, uscendo dal portone di via Palestro, confidò a Ghiglia: "Finalmente posso pagare il sarto che mi ha fatto il frak!" Diversamente reagisce Georg Kulenkampff che non parla una parola di italiano, "e per ricambiare il senso di calda amicizia che sente in casa Bonfiglioli agguanta il violino e suona da capo a fondo il concerto di Mendelssohn".  Anche il salotto, infatti, veniva adibito a sala da concerto. In un angolo c’era il famoso Steinway, allora il miglior pianoforte in città, miracolosamente scampato alle razzie e ai bombardamenti, il quale oltre a servire per le serate musicali in casa, rallegrate da esecutori del calibro di Arturo Benedetti Michelangeli, veniva anche trasportato e messo a disposizione di vari teatri cittadini man mano che venivano riaperti. Né ovviamente Bonfiglioli dimenticò, nel dopoguerra, la grande passione bibliofila appresa da Pincherle; anzi, passata la bufera, vi si dedica, nei momenti liberi dagli impegni politici o musicali, con tenacia e acume, spesso proprio in compagnia dell’amico che gli aveva fatto da maestro. "Quanti incontri a Milano, a Firenze, a Roma – dirà Pincherle –; quante corse attraverso l’Emilia e la Toscana alla ricerca di piccoli tesori; quante soste non soltanto dai grandi librai, ma presso umili negozietti di antiquario; quante ore trascorse a Modena, nella bottega dei Gozzi, a discutere con quell’eccellente artigiano come restaurare meglio un libro". Ma Bonfiglioli si spingeva anche oltre: "Era capace di intraprendere un lungo viaggio se veniva a sapere che in un’asta in Svizzera, in Francia, in Olanda, in Inghilterra, sarebbe apparso un qualche volume che mancava ancora alla sua Ariostea o a quella raccolta delle stampe di Nicolò Aristotele di Ferrara, detto lo Zoppino, che andava amorosamente completando, attorno al primo nucleo della collezioncina Sitta che egli aveva salvato dalla dispersione". Tant’è, che già negli anni Cinquanta la collezione Bonfiglioli poteva vantare, tra le rarità di spicco, la princeps dell’Orlando furioso del 1516 (di cui si conoscono soltanto 12 copie), quella ultrarara del 1521 (delle 4 che restano) e ben due esemplari del 1532 (che assommano nel totale a 25). Egli fu pertanto il primo e (a quanto mi consta) fin qui unico collezionista che sia riuscito ad allineare sulla propria scrivania tutte e tre le edizioni originali del poema ariostesco, realizzando così il sogno invano vagheggiato da Giuseppe Agnelli, bibliotecario dell’Ariostea, che negli Annali delle edizioni ariostee, del 1933, aveva scritto: "La stampa del 1516, la editio princeps, anche da sola, ha un’importanza davvero capitale, ma se le mettiamo vicino la stampa del 1521 e quindi, a queste due edizioni, accostiamo quella del 1532 […], allora giudicheranno i bibliofili se questo gruppo di rarità Ariostee non salga a un valore di eccezione ". Nemmeno l’altro grande collezionista ferrarese che lo aveva preceduto, Giuseppe Cavalieri, appartenente anch’egli alla borghesia ebraica, era riuscito a tanto. E non basta, perché Bonfiglioli, oltre alle stampe, rarissime, dello Zoppino – 187 stando a quanto ricorda la nuora (sia pure con un margine incertezza), di contro alle 14 dell’Ariostea – possedeva pure, tra i cimeli, l’autografo di un intero Dialogo del Tasso, la princeps della Poetica del Trissino postillata sempre dal Tasso e inoltre la princeps della Teseide del Boccaccio stampata a Ferrara nel 1475. Sennonché, diversamente da tanti collezionisti, Bonfiglioli non fu mai geloso della propria collezione; anzi, si adoperò in pari misura a beneficio delle biblioteche pubbliche. È il caso del rimpatrio a Ferrara della cosiddetta “Bibbia del Savonarola”, ovverosia della Biblia latina (Venezia, Nicolaus Jenson, 1476) fittamente postillata dal frate domenicano durante il suo soggiorno ferrarese presso il convento di Santa Maria degli Angeli tra il 1479 e il 1482, cosa che però rimarrà insospettata per molto tempo. Finché, dopo lunghe peripezie, il prezioso incunabolo non rientrò in Italia dagli Stati Uniti e la paternità savonaroliana di quelle annotazioni, estese su circa 500 facciate, si rivelò inequivocabilmente. Ed è qui che si colloca l’intervento di Bonfiglioli, il quale cercò subito di coinvolgere gli enti pubblici e privati all’acquisto del cimelio, dedicandosi all’impresa anima e corpo, finché un accordo fra la Cassa di Risparmio di Ferrara e l’Amministrazione Comunale riuscì ad assicurarlo all’Ariostea nel 1960, che così acquisiva "un tesoro d’arte di valore universale quanto il ciclo astrologico di Schifanoia o la ceramica attica del Museo Archeologico di Spina" come ha scritto Francesco Loperfido nell’articolo Questa bibbia è da salvare. E lo stesso aveva fatto, nel 1955, per un altro cimelio di altissimo interesse, sfruttando le sue conoscenze nel mondo dell’antiquariato, non risparmiandosi viaggi e fatiche finché non fosse giunto all’Ariostea: il manoscritto della Gerusalemme liberata amorosamente ricopiato da Orazio Ariosto, pronipote del poeta, e ornato dagli splendidi disegni del ferrarese Domenico Mona. Renzo Bonfiglioli si spense a Ferrara dopo una lunga malattia il 24 novembre 1963; aveva 59 anni. Qualche giorno prima gli fece visita Bruno Pincherle, quando ormai non riusciva più a muoversi dal letto. Eppure, racconta Pincherle: Il destino ha voluto che della Biblioteca Bonfiglioli, ceduta dagli eredi a un antiquario milanese verso la fine degli anni Settanta e poi dispersa, oggi non resti che il ricordo e il rammarico, per tanta perdita e per la mancata acquisizione da parte di un’istituzione ferrarese. Così talvolta finiscono anche le opere d’arte, senza che ciò tolga alcunché al merito di Renzo che quella biblioteca, unica e irripetibile, creò dal nulla, seguendo unicamente il filo di una fantasia ariostesca. Che cosa essa avesse significato nella sua travagliata vita, ben lo poteva capire Pincherle: "un piccolo mondo di grazia e di poesia, quasi un paradiso artificiale in cui poter sostare tra l’una e l’altra delle tante generose battaglie che quest’uomo, in apparenza disimpegnato e pur sempre impegnatissimo, volle e seppe combattere fino all’ultimo respiro". La donna che gli fu accanto tutta la vita lo accompagnò anche dopo, compilando nelle lunghe sere della vedovanza un piccolo schedario di quell’insigne biblioteca, purtroppo al momento irreperibile. Di lì a poco fu ceduta la “magnaLa Bibbia appartenuta a Girolamo Savonarola, stampata a Venezia da Nicolaus Jenson nel 1476, è stata donata alla Biblioteca Comunale Ariostea anche grazie all’interessamento di Renzo Bonfiglioli. domus” che, ristrutturata, è ora diventata un lussuoso hotel. Nel 1997 la “Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali”, istituita nel 1955, decise di prendere in considerazione anche gli ebrei “in qualità di vittime di violenza morale”. Era proprio il caso della signora Ida che, presentata domanda, ottiene una piccola pensione di benemerenza. Che però le viene revocata nel ’98, riconcessa nel 2004 e nuovamente revocata nel 2006; questa volta intimando addirittura il risarcimento delle somme già percepite. Il caso indigna l’intera nazione. Alla commissione ministeriale non bastavano dunque, quali atti di persecuzione sia pure intesa come violenza morale, la marchiatura sui documenti come appartenente alla “razza ebraica”, l’allontanamento dei figli dalla scuola pubblica, l’arresto della madre con cui iniziò il suo viaggio verso Auschwitz, l’internamento del marito in un campo di concentramento; no, ne voleva aggiungere uno di suo. Finché, assistita dall’avvocato Michele Ravenna, la Corte dei Conti, con la sentenza finale del 7 marzo 2008, non le rese tardiva giustizia: e per lei fu una vittoria anzitutto morale. E non era l’unica: l’anno precedente, in occasione della Giorno della Memoria, il 27 gennaio, il Comune di Urbisaglia le aveva conferito la cittadinanza onoraria. Oggi Ida Ascoli Magrini, la ragazza che aveva giocato con il cane di Micòl, ha 102 anni; ne compirà 103 il prossimo 31 dicembre. Mentre mi congedo da lei, che mi ha pazientemente assistito nelle mie ricerche, mi accorgo che tante traversie della vita non hanno minimamente scalfito la sua schietta, ferrarese bonarietà; quel pomeriggio di fine maggio erano inoltre presenti la figlia Dori e la nuora Jose Romano, vedova del compianto Geri, mancato il 23 agosto 2006 non senza darmi prova della sua generosità. A tutti loro, con viva gratitudine, è dedicato questo ricordo di Renzo Bonfiglioli.