Poesia a Copparo

Scritto da  Maria Cristina Nascosi

Oreste Marchesi in un'immagine d'epoca.Corrado Govoni, Oreste Marchesi e altri "giganti".

La vena poetica così piena e varia, permeata, fra l'altro, anche di lucida follia e di allegra spensieratezza, che, per certi versi, si può ascrivere agli autori copparesi, ha radici nel movimento futurista.

Corrado Govoni, nativo di Tamara, che esattamente cento anni fa, con la pubblicazione de Le fiale, nel 1903, esordiva poeticamente sulla scia decadente del poeta vate Gabriele D'Annunzio, passò, in seguito, ad altri "ismi" letterari: nell'ambito del crepuscolarismo pubblicò Armonie in grigio et in silenzio, sempre nel 1903, per passare alla corrente del futurismo con Fuochi d'artifizio, del 1905.


Govoni superò comunque anche le suggestioni di quel movimento e, passando attraverso esperienze diverse, espresse sempre la sua vena impressionistica e idilliaca, sensuale e creativa, densa di colori ed effetti fonici, giungendo a esiti di personale surrealismo, legato spesso alla sua terra come appare in un inedito, Notte padana, che si riporta in parte: «Dove il fiume fa un'ansa e il sole cuoce/......./ Schiudendo all'alba palpebre e finestre, / come dolce sarà là fuori e nuova, / campagna lavata dalla luna»; e ancor più legato, neppur tanto subliminalmente, anche alla sua lingua di latte, quel dialetto ferrarese che, in trasparenza, pare di poter leggere, affettuoso alter ego semantico e sintattico, ne "La trombettina", tratta da Il quaderno dei sogni e delle stelle, del 1924.

Diversa e più profonda fu, anche se in parte, l'influenza che il futurismo produsse in un pressoché coetaneo del Govoni, il copparese Oreste Marchesi, nato un anno prima del grande poeta, nel 1883.

Non a caso il Marchesi, - definito giustamente da Vincenzo De Toma nell'unica biografia riconosciuta, artista eclettico quant'altri mai, «...onore, gloria e vanto di Copparo...», anche se i suoi concittadini spesso lo considerarono un genialoide, un po' pazzo, da tenere, casomai a debita distanza -, aveva abbracciato la corrente del Marinetti: avvertiva, in essa, la sua stessa anima, ribelle a certa statica forma mentis del passato.

Scrisse versi, liriche, canzoni in italiano e nella sua lingua dialettale - mai disdegnata, anzi - che poi raccolse in volumi, a cui s'accompagnava la pittura, naturale "translazione" in immagini dell'opera sua poetica ed entrambe "giusto" viatico per la musica. La malattia contratta in guerra, come narra il De Toma, gli aveva tolto la memoria ma, paradossalmente, fu la sua fortuna: il suo non "poter" forzatamente essere sulle spalle dei giganti che lo avevano preceduto fece di lui un gigante originale, a se stante, senza debiti culturali di sorta verso alcuno.

Intelligenza e spirito precursore e d'avanguardia, per quei tempi, Oreste Marchesi raccolse e conservò, oltre ai suoi testi, le rassegne-stampa, i volantini, le brochures, tutto ciò che riguardava il suo "poter passare ai posteri", già forse inconsciamente consapevole che nessuno l'avrebbe altrimenti fatto per lui...

Si ricorda, fra queste testimonianze di eventi che lo avevano visto protagonista, una serata, tenutasi in data purtroppo non precisabile, nel cortile del Castello Estense quando, protagoniste la Corale Ferrara - ora Corale Veneziani - e il Circolo Mandolinistico "Regina Margherita" (quello che in seguito e ancora oggi esistente diverrà la ormai ultracentenaria orchestra a plettro "Gino Neri"), diretto dal Maestro Bruto Michelini, l'artista ebbe l'onore del bis  dell'esecuzione della sua canzone in dialetto ferrarese  "La mié campagna IN amor ".

Di valore incommensurabile, nell'ambito del suo prezioso archivio, patrimonio della Biblioteca Comunale di Copparo, il carteggio da lui intrattenuto con Filippo Tommaso Marinetti che ebbe sempre per il Marchesi grande considerazione, tanto da stilare per lui, nel 1934, la prefazione a Fra verde e stelle - Confetti e fiori a colori; da una delle loro epistole, riprodotta in immagine contestualmente a queste righe, si può cogliere l'altro importante rapporto, medium il Marinetti stesso, tenuto dal Marchesi con il lughese Francesco Balilla Pratella, compositore, etnomusicologo e saggista, teorico e promotore del Manifesto dei musicisti futuristi e del Manifesto tecnico della musica futurista.

Ma ecletticamente, come si diceva, Marchesi non si serve delle sole muse gemine - Poesia, Musica, Pittura - e così si autodefinisce, non senza molta auto-ironia:

Faccio il poeta
"    il musico
"    il pittore
"    il bottegaio
"    il suonatore
"    il medico
"    d'orchestra il direttore
"    lo scienziato
"    l'assistente
"    il falegname
---------        e tutto
L.0,00         per niente.

Amante della sua terra, come il Govoni, Oreste non se ne allontana che per pochi velocissimi attimi: si lascia concupire dal Po, da Cesta, da Zenzalino, per riavvicinarsi sempre e comunque alla "sua" Copparo che è il mondo intero, dove si trovano soggetti per tutti i quadri e motivi per la sua musica, la sua poesia: «...e dai e vòlta e prìla e dai / l'amor l'è fat acsì...», recita, fra l'altro "La mié campagna in amor" di cui sopra.

C'è qualcun altro che a seguire, nel tempo, parlerà di lui e di Copparo, in termini ugualmente e diversamente affettuosi e tra le cui righe si possono cogliere le eredità letterarie del Marchesi: la prima è Liana Medici Pagnanelli, che gli dedicò una poesia in cui ricorda la trascurata genialità dell'artista, amico di famiglia, con cui lei, bambina, sentiva un'affinità rara, in qualche modo trasmessa poi in tutta la propria densa e acuta sensibilità artistica, pittorica e letteraria; da ricordare è pure la semplice ma pregnante ars poetica di Giuliano Sampaoli, suo buon sodale e amico; e altri sarebbero da non dimenticare, se lo spazio non fosse tiranno. Ma ce n'è uno che è impossibile non citare, poiché da solo meriterebbe pagine di memoria: si allude a don Artemio Cavallina, sacerdote e figura umana grande, fra i padri fondatori della parola  ferrarese dialettale (ma non solo) scritta.

Suoi sono i tanti sonetti che stilò, lezioni di vita piene di humour e di sentimento: la sua vena poetica argutamente spicca nei suoi interventi, tra proverbi, modi di dire, pillole di saggezza e grandi liriche redatte per un testo di didattica allora basilare, A l'ombra dal Castèl, a uso dei bimbi delle scuole elementari, stampato nel 1925 dall'editore palermitano Sandron, al quale avevano messo mano altri del calibro di Giovanni Pazzi, l'autore de La Castalda, del 1902, prima opera drammaturgica "ufficiale" della dialettalità ferrarese, o di Nando Bennati, autore eclettico, uno dei maestri del "primo" Antonioni.

A monsignor Artemio "orestemarchesi" - proprio così volle firmarsi - rese un omaggio finale, "alla memoria": scrisse per lui, il 29 aprile del 1937, una poesia che intitolò "Un Santo", un estremo ulteriore legame, già nell'incipit, per loro alla loro terra, che così recita:

«Sopra le zolle di poatello / nacque un bambino .../
era un nostro fratello...».