Cento dipinti per Dresda

Scritto da  Jadranka Bentini

Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, Nettuno e Minerva, Dresda, Gemalde Galerie.La vicenda della vendita della quadreria estense ad Augusto III, Elettore di Sassonia.

Mentre Pietro Ercole Gherardi andava redigendo con diligenza la Descrizione delle pitture nell'Estense ducale Galleria, a lui commissionata dal duca Francesco III e che vedrà la luce nel 1744, nulla ancora trapelava nella mente dell'abate del vero scopo dell'iniziativa, tendenzialmente ben poco encomiastica e in verità utile alle trattative dell'acquisto del secolo: quello della celebre quadreria estense da parte di Augusto III di Sassonia.
Le ristrettezze modenesi - dovute ai disastri della guerra di successione austriaca come agli sperperi della corte - erano note a dimensione europea, così come famosa da almeno ottant'anni era la Galleria ducale, immortalata nelle pagine dello Scanelli e dello Scaramuccia.


Fra i visitatori del luogo, situato al primo piano del palazzo che Bartolomeo Avanzini aveva disegnato per Francesco I - più esattamente nel Nobile Appartamento, composto dal grande salone affrescato da Mario Antonio Franceschi e Carlo Hoffner e dalle cinque sale limitrofe che aprivano le finestre sulla grande piazza ducale -, nel 1712 era giunto anche Augusto III, futuro re di Polonia ed Elettore di Sassonia, imparentato con lo stesso Francesco III per averne sposato una prima cugina.

Il quarto cardine - ritenuto, a ragione, il capolavoro assoluto dell'arte del Rinascimento padano - era costituito dalla Notte del Correggio, sulla quale naturalmente l'Elettore, vero intenditore della buona pittura, mise gli occhi da subito. Ma tutta la raccolta era venuta nei pensieri di questo principe collezionista europeo, che poteva contare al momento della morte del suo predecessore Augusto il Forte - avvenuta nel 1733 - su di una collezione di centinaia e centinaia di dipinti italiani, spagnoli e fiamminghi ai quali egli affiancherà, con una serie di acquisizioni mirate, altri capolavori fatti giungere soprattutto da Venezia.

 


Ritratto di Augusto III, Elettore di Sassonia e Re di Polonia (pastello di A.R. Mengs, Dresda, Gemalde Galerie).Il ruolo sempre maggiore del denaro in Europa nel secolo XVIII dava accesso alla proprietà di categorie di oggetti prima nelle mani di eruditi e della vecchia aristocrazia in crisi: le collezioni d'arte e i dipinti ne erano la punta di diamante e su di essi esercitavano pressioni le case regnanti in ascesa e i detentori del potere, fra i quali primeggiava lo stesso conte Enrico di Bruni, consigliere e primo ministro di Augusto III, che nel 1744 aveva fatto costruire dall'architetto Johann Cristoph Knoffel, sulla terrazza sull'Elba, una galleria per contenere i suoi mille dipinti.
Una sfida che faceva parte del gioco convenzionale fra collezionisti, ben altrimenti dimensionati rispetto ai raccoglitori di curiosità e ai detentori di quei "microcosmi" di oggetti e pensieri che avevano popolato le capitali, come la periferia, fino al secolo precedente.

Questo fatto non poteva passare inosservato al grande Elettore che, due anni dopo, affidava allo stesso progettista la costruzione della sua galleria, proprio quando gli veniva assicurata la disponibilità del duca Francesco III alla vendita dei dipinti intravisti trent'anni prima a Modena.

«Dopo moltissimi stenti e fatiche finalmente mi è riuscito di ottenere dal Ser.mo Duca di Modena la permissione di poter andare a visitare la sua galleria di Quadri che sono sotterrati, parte di questi si trovano a Modena... e parte in Ferrara... devo colà portarmi con tutta la maggiore cautela possibile non solo per tal motivo, ma perché non venga scoperto da chiunque di corte fuor che la Persona segnata un sì delicato affare, essendone molti del Consiglio che disapprovan tal vendita, anzi espressamente si son dichiarati di non volerla permettere.» La lettera, datata 27 marzo 1745, è firmata da Venezia dal pittore di corte Bonaventura Rossi, succeduto al fratello Lorenzo anche quale restauratore e riparatore di quadri.

Il nome di Bonaventura Rossi compare ripetutamente in merito agli acquisti italiani dell'Elettore, come quello del conte Francesco Algaretti, veneziano di adozione, appartenente a una famiglia di banchieri di rango.
Non dimentichiamo poi che in molti luoghi agivano esperti e agenti del re, anche se era il potentissimo conte Bruhl a impartire le istruzioni sugli acquisti: il conte Goten a Vienna, il segretario de Brais a Parigi, il legato russo Kayserling e, più vicino a noi, Anton Maria Zanetti a Venezia, Luigi Crespi e Gianpietro Zanotti a Bologna.

 


Una veduta di Dresda di Francesco Bellotto, detto il Canaletto, conservata alla Gemälde Galerie.La rete degli agenti era dunque fittissima e il dinamismo che improntava la politica sassone sulle acquisizioni era garantito nella capitale da un'intensa attività rivolta alla realizzazione di luoghi per il contenimento e l'esposizione dei dipinti: una serie di impegni progettuali cui attendeva lo stesso Algaretti. La vendita, come è noto, avvenne non senza difficoltà e incomprensioni, assolutamente segreta nei sopralluoghi che precedettero la formalizzazione dell'acquisto (per l'elevatissima cifra di centomila fiorini d'oro; ma si ricordi, per inciso, che l'abito per l'incoronazione di Augusto II il Forte ne era costati ben 340.000!), contrariato da non pochi amministratori del palazzo. Segreti furono del resto i depositi che il duca fece apprestare per il suo patrimonio d'arte allorché dovette andare in esilio: fra i palazzi di Sassuolo e Pentatorri, il Convento delle Salesiane di Modena e la residenza ferrarese del commissario Cantarelli, entro stanze murate e nascondigli erano andati ad accumularsi infatti dipinti, mobili, preziosi, statue, medaglie e finanche cammei.

Vano fu il tentativo, invero assai debole, di trattenere la Notte dell'Allegri e gli altri quattro insigni quadri del Correggio, del Veronese, del Pordenone e di Annibale Carracci: l'offerta fece abbandonare ogni resistenza, messa a dura prova quotidianamente da legati e consiglieri che avevano intravisto nella ferma volontà dell'Elettore la risposta alla loro avidità di denaro, soddisfatta poi da ricche ricompense per le intermediazioni operate. Si distinsero fra tutti il marchese Rangoni e Anton Maria Zanetti, che si vantava di aver fatto trasportare a Dresda l'intera Galleria Ducale.

Alla fine dell'estate del 1746 i quadri modenesi giunsero a Dresda e se ne iniziò la sistemazione nello Johanneum, che ospitò la Gemäldegalerie fino agli inizi del XIX secolo.
Johann Joachim Winckelmann, allora giovane bibliotecario al servizio del conte van Bunau, esclamerà tre anni dopo: «La Reale galleria dei dipinti è la più bella del mondo, dopo che si sono aggiunti i quadri provenienti da Modena, da Praga e diversi altri...». E proprio sui quadri giunti dalla capitale estense l'astro nascente della critica d'arte classica eserciterà le sue prime considerazioni estetiche, che si riveleranno fondamentali per alcune generazioni di studiosi.

 


Dosso Dossi, San Michele, olio su tela, cm 119 x 205, Dresda, Gemälde Galerie.La quadreria ducale contribuirà perciò non solo a dare esemplare sostanza a una delle più grandi gallerie europee, sulla quale convergeranno centinaia di altri capolavori, bensì influenzerà le concezioni classiciste di matrice tedesca del secolo. Più tardi Morelli affermò che «in nessuna altra galleria al di qua delle Alpi Dosso e Garofalo sono rappresentati tanto bene e con tanta ricchezza come nelle belle sale della galleria di Dresda».
Ecco un punto che rimetteva Ferrara e la sua scuola pittorica al centro del dibattito critico di fine secolo, denunciando la fortuna dei pittori dell'età di Alfonso I sul piano della museografia europea in via di pieno consolidamento.
Da Ferrara, attraverso Modena, erano giunte infatti quelle opere che ornavano, in Castello, le camere ducali di rappresentanza come quelle segrete: erano i Dossi, il Garofalo, Gerolamo da Carpi, ma anche Tiziano con quel Cristo alla moneta che divenne per gli artisti tedeschi uno dei miti esaltanti della galleria sassone.

Nella storia delle dispersioni e degli occupamenti che caratterizzò le vicende della formazione dei maggiori musei europei dei secoli moderni, certamente la vendita di Dresda vanificò gran parte del collezionismo ferrarese cinquecentesco, più esattamente quello superstite dalle scorribande e dai prelievi operati dagli avidi cardinali romani all'epoca della "devoluzione" di parte del Ducato estense a favore dello Stato pontificio.
Non fu, questa, una storia migliore o peggiore di altre per le conseguenze che ebbe sul piano del depauperamento patrimoniale italiano: certamente l'ingresso numericamente forte e così completo di un intero segmento della pittura ferrarese del primo Cinquecento in un luogo preciso come Dresda ebbe conseguenze ben altrimenti strutturate e forti - e non solo sulla cultura tedesca - di quanto non abbiano potuto produrre le dispersioni e i dissolvimenti delle quadrerie private della città padana.