Quando a Ferrara c'erano i Lancieri

Scritto da  Gaetano Tumiati

Militari a Ferrara negli anni Trenta.Ancora negli anni Trenta, Ferrara era una città affollata di militari e di cavalli.

Da Milano, dove abito da oltre quarant'anni, torno di tanto in tanto a Ferrara, mia città d'origine, e quindi conosco benissimo il suo aspetto moderno, vivo, pulito. So anche che parcheggiare la macchina nelle vie del centro è difficile come in una metropoli.
E tuttavia, se a Milano, in un momento qualsiasi - magari in una metropolitana sovraffollata - mi vien fatto di ripensare alla mia città, spesso mi capita di rivederla come era negli anni Trenta, o addirittura negli anni Venti ai tempi della mia infanzia: vie ampie e semideserte, senza l'ombra di un macchina; corso Giovecca, la nostra "grande via", ancora pavimentata a ciottoli con doppio binario di lastroni di pietra; i caselli del Dazio in fondo a viale Cavour con il daziere in divisa che fermava le carrozze provenienti dalla stazione - carrozze chiuse, "barline" - e domandava al viaggiatore se avesse con sé qualche merce soggetta a dazio.

 

E i piccoli tram sferraglianti e beccheggianti, capolinea in piazza Savonarola, tutti color verdastro tranne quello bianco panna che si spingeva fino a Pontelagoscuro, affollatissimo la domenica dalle famigliole che andavano a vedere il Po e a comprare i mandorlini, sorta di spumini di chiara d'uovo e mandorle che, a quanto si diceva, soltanto a Pontelagoscuro venivano fatti a regola d'arte.


Militari a Ferrara negli anni Trenta.Dieci, cento immagini che sfilano nella mia memoria come dagherrotipi in bianco e nero. Ma la Ferrara di quei tempi aveva altre due caratteristiche che la distinguevano: la presenza massiccia dei militari e quella altrettanto vistosa dei cavalli. In città c'erano allora ben tre Reggimenti: uno di cavalleria nella caserma di via Cisterna del Follo, uno di artiglieria in quella di via Palestro, un terzo di fanteria in corso Ercole I d'Este, dove oggi c'è il liceo classico. Tre reggimenti volevano dire migliaia di soldati che, all'ora della libera uscita, con le loro ruvide divise grigioverdi, ben lontane dalla praticità americaneggiante di quelle in uso ai giorni nostri, dilagavano per le strade, riempivano le piazze, affollavano i cinema nei posti a minor prezzo.


Tre reggimenti volevano dire continue manovre in piazza d'armi, presso i ruderi dell'antica fortezza austriaca, sotto la grande statua di Paolo V Borghese, dove oggi ci sono le villette del Rione Giardino. Tre reggimenti, infine, volevano dire reparti che, sfilando a passo cadenzato, facevano tremare i vetri delle finestre, tinnir di speroni, continui squilli di tromba.

Noi, che abitavamo in via Palestro, quasi di fronte alla caserma di artiglieria, avevamo la giornata scandita da quei segnali: c'era lo squillo della sveglia, quello dell'alzabandiera, quello per il rancio.
Le note della ritirata, alle nove di sera, coincidevano con il momento in cui, finita la cena, stavamo per alzarci da tavola. A quel suono, nostro padre - avvocato vecchio stampo, molto amante della puntualità - sorrideva consultando il suo orologio d'oro da taschino. Precisione, innanzitutto. Delle tre armi, la più aristocratica era senza dubbio la cavalleria.

Nella caserma di via Cisterna del Follo negli anni Venti era di stanza il Reggimento Lancieri Aosta, dal bavero contrassegnato da lunghe fiamme rosse a tre punte, mentre negli anni Trenta gli succedette il Reggimento Lancieri Firenze, dalle fiamme di un brillante arancione. Gli ufficiali avevano divise elegantissime, bottoni d'oro, stivali specchianti, sciabole lustre e nei giorni in cui era prescritta l'alta uniforme, mantelle azzurre e pesanti colbacchi alla russa con una superba penna in cima.

A mezzogiorno di ogni domenica sostavano a gruppetti, davanti al Caffè Folchini, in Giovecca, dove c'è oggi il Caffè Europa; più tardi, negli anni Trenta, davanti all'Azzolini, in via Boldini. Le mani guantate di bianco appoggiate all'elsa della sciabola si levavano di tanto in tanto alla visiera per salutare le signore in ghingheri e le ragazze bene, accompagnate - s'intende - da madri serie serie. La divisa a quei tempi esercitava un gran fascino e tra sottotenenti e fanciulle nascevano romantici amori, mentre qualche travolgente passione - fonte di interminabili pettegolezzi - divampava tra capitani e dame sui quaranta.
Nei tardi anni Trenta, il divo assoluto, l'astro senza rivali era il maggiore Alto, vagamente somigliante a Gary Cooper, gran campione di polo, che aveva la fama di irresistibile seduttore. Nelle feste e nei ricevimenti, il suo volto abbronzato svettava al centro della corolla dorata delle signore in cappellino.

La presenza della cavalleria, e più tardi anche del reggimento di artiglieria a cavallo - le famose Voloire, con i pesanti cannoni trascinati al galoppo da doppie o triple pariglie -, faceva del cavallo un elemento caratteristico, quasi un contrassegno del paesaggio urbano.
Oltre a quelli dei reggimenti, c'erano i cavalli del Deposito Stalloni, nei pressi del campo d'aviazione dove atterravano traballanti biplani Caproni; i cavalli lustri e pasciuti delle carrozze patrizie; quelli grandi e neri dei carri funebri; quelli monumentali della agenzia dei Trasporti Gondrand con i poderosi zoccoli che sprizzavano scintille contro i ciottoli nel momento del grande sforzo iniziale; fino a quelli ciondolanti delle vetture a noleggio, ferme in piazza Teatini tra pozzanghere di orina dall'odore acre e pungente.


Militari a Ferrara negli anni Trenta.«Vai a prendere una carrozza,» mi ordinava nostra madre quando doveva raggiungere qualche località più lontana del solito. «E mi raccomando, guarda bene che abbia le ruote di gomma!». Di gomma non significava pneumatici: voleva soltanto dire che le grandi ruote di legno dovevano avere un sottile battistrada di gomma dura, anziché un cerchio di ferro. Le più note famiglie nobiliari avevano la propria carrozza privata, nera nera, con tanto di cocchiere in serpa; i rampolli agrari avevano il loro cavallo da sella, qualcuno anche un trottatore con il sulky, i concorsi ippici cadenzavano la primavera e l'autunno, così come le grandi opere liriche al Teatro Comunale, riservate a una ristretta élite, scandivano i mesi invernali.

Ma il cavallo che più impresse la mia mente infantile, il cavallo simbolo, emblema stesso della cavallinità, resta per me quello del signor P., un proprietario terriero cliente di nostro padre: uno splendido baio, gran trottatore che spesso, attaccato al calessino, compariva altezzoso in fondo a corso Giovecca. Trattenuto dal signor P., percorreva nervoso la grande via, superava la leggera salita del Castello e infine imboccava l'ampio rettilineo di viale Cavour, percorso soltanto da qualche bicicletta; lì, finalmente, il guidatore allentava le redini quel tanto che bastava perché il cavallo si lanciasse in un trotto sempre più rapido a falcate sempre più lunghe e distese. Coda al vento, criniera sfrangiata contro il sole, zoccoli che schioccavano sull'asfalto a ritmo forsennato, a un certo punto non era più un cavallo, ma un animale mitologico, un tornado, una bufera.

Una follia far trottare a quel modo un cavallo sull'asfalto; una aperta violazione alle più elementari regole ippofile. Ma il signor P., in quei momenti, tutto buttato indietro per trattenere l'animale, era certamente felice. E dai bordi del gran viale pieno di sole, fidanzati, balie dai costumi multicolori pieni di spille, pensionati, studenti, cavalleggeri in libera uscita, e anch'io bambino, ci fermavamo a guardarla estasiati, quella follia.